Antonio De Lisa- Il simbolismo degli strumenti musicali

Stiamo appena scoprendo l’uso orchestrale degli armonici, specialmente gli armonici di contrabbasso (ecco incidentalmente uno dei mei suoni prediletti; tendete la trachea ed aprite la bocca di poco più di un centimetro così che la pelle del collo diventi come una pelle di tamburo, poi picchiate leggermente con un dito sul collo: ecco il suono che intendo).”

Igor’ Stravinsky, Colloquio con Robert Craft, 1958

Uno dei miti più importanti che riguardano gli strumenti musicali è quello della gara in cui Apollo, con la sua cetra, uno strumento a corde, sconfigge Marsia, suonatore di aulós, uno strumento a fiato – una piva ad ancia, identificabile in base a svariate testimonianze letterarie e visive con un oboe (non con il flauto, come erroneamente si è creduto per molti anni), dato che era munito di un tubo ad ancia doppia. Un altro mito riferiva di un’altra vittoria delle corde di Apollo sulla siringa del “dio dalle zampe di capra”, Pan. Ma la vittoria su Marsia riveste un contenuto tragico ignoto all’altra. Apollodoro, Ovidio nelle Metamorfosi, Plutarco (Alcibiade II), Filostrato il giovane (Imagines 2) ce ne forniscono versioni diverse, ma la sostanza mitica, secondo Emanuel Winternitz, è assai suggestiva: “la storia di Marsia non mostra solo l’hybris punita, contiene anche un’essenza e un messaggio speciali. E’ il distillato poetico di un eterno conflitto, l’antagonismo tra due regni musicali, quello degli strumenti a corda e quello degli strumenti a fiato. Ciò sta a significare non solo la differenza tra il suono sereno e argentino delle corde pizzicate e il suono piagnucoloso, stridulo, gutturale, eccitante di una piva ad ancia, anche se questa differenza da sola è stata sufficientemente impregnata di significati simbolici, fin dalle più antiche civiltà; significa anche, nella razionalizzazione dei miti fatta dai greci, il regno della inibizione, della ragione, della misura ­­- nel significato letterale pitagorico di misurare le corde e gli intervalli, e nel senso metaforico di non eccedere la misura – contrapposto al regno della cieca passione: in breve, la rivalità tra Apollo e Dioniso”. [1]

Forse un’interpretazione mitico-simbolica degli strumenti ci porterebbe troppo lontano dalla problematica del rapporto tra pensiero compositivo e nuove tecniche esecutive, che ci proponiamo in breve di tratteggiare, sia pure per sommi capi, ma queste gesta rivestite di mito sono  spie di un “paradigma indiziario”, per dirla con Carlo Ginzburg, [2] che riguardano gli strumenti nella loro materialità micro-storica. E’ come se gli strumenti parlassero una propria lingua, che il mito è capace di interpretare, e che la filosofia ha in sospetto. “Se la dea (Atena, N. d. A.) gettò via l’aulós, – scrive Aristotele nella Politica (1341b, 5) – non lo fece solo perché le deformava il viso, ma anche perché il suonare l’aulós non ha nessun effetto sull’intelligenza”. Dove, dato per scontato il disprezzo aristotelico per uno strumento che non possiede neanche l’infimo livello di un grado di spiritualità, esso non è neanche controbilanciato dalla grazia del movimento del  viso  della dea. Soffiare in un tubo implica infatti un certo sforzo che rischia di deturpare i lineamenti di una signora senza favorirne la spiritualità.

Gli strumenti a corda, simboleggiati dall’archetipo del monocordo, hanno goduto a partire da Pitagora dello statuto di strumenti privilegiati, rappresentativi di una compiuta proporzionalità matematica, della perfetta misura  delle cose di cui la musica sarebbe un riflesso, specchiato nel mito di Apollo citaredo. La loro storia si intreccia con il costituirsi e stabilizzarsi della teoria e della pratica dell’orchestrazione moderna, che si definisce nell’ultimo quarto del diciassettesimo secolo con le opere di Alessandro Scarlatti ( 1659-1725) e Henry Purcell (1659-1695), i quali sanzionano il passaggio dalle origini dell’orchestrazione moderna – rappresentate dalle opere di Cavalieri, Peri, Monteverdi, Gagliano, Landi, Rossi, Cavalli, Cesti, Legrenzi, Carissimi, Stradella, Lulli, Schütz, Albert, Tunder, Hammerschmidt – al periodo maturo di Bach e Handel, prima di sfociare nell’orchestra classica di Haydn e Mozart. Punta di diamante ne è il violino, cuore sonoro dell’ organismo orchestrale, quasi “voce” del compositore in un fenomeno che si accentuerà via via che ci inoltriamo nell’Ottocento e che si scinderà all’inizio del nostro secolo in un duplice processo: da un lato il suono della massa d’archi sarà indagato in una prospettiva che potremmo definire “spettrale” ante-litteram; dall’altro subirà una severa messa in discussione, come simbolo di un passato irrevocabile. Edgard Varèse li accuserà, appunto,  di “passatismo”. “Gli strumenti ad arco (…) sono ancora i dominatori  dell’orchestra, nonostante il fatto che l’apogeo del violino risalga agli inizi del XVIII secolo. Perché dovremmo aspettarci che uno strumento così tipico del suo periodo riesca ancora a essere il principale sostegno dell’espressione di ciò che è contemporaneo? Il resto dell’orchestra tradizionale non consente di esplorare le possibilità di timbri e registri diversi”. [3] Non a caso Varèse prediligerà nelle sue opere gli strumenti a fiato, in particolare gli ottoni, e le percussioni, che rappresentano un indice materico della  sua tensione utopica,  sulla scia di Hoëne Wronski, secondo il quale “le beau spécial (…) qui se manifeste par la corporification de l’intelligence dans le sons est l’object de la musique“.

Che cos’è questa “messa in materia” (corporificazione) dell’intelligenza nel suono? Questione dibattuta, che ci guarderemo bene anche solo dall’accennare. Rovesciamo la domanda: qual è l’identità materica che permette questo processo? Varèse aveva intuito e praticato parzialmente le nuove tecniche elettroniche di produzione sonora, ma il suo universo resta leggibile solo attraverso quelle tradizionali, sia pure profondamente rinnovate, prodotte da strumenti carichi di tradizione. Bisognerà insistere – seguendo la  nostra traccia – sul carico di tradizione e di memoria degli strumenti. “Lo strumento musicale -ha scritto recentemente Berio- è una macchina utile all’uomo. Ma non è solo utile a produrre note e non è affatto neutrale; con le sue tecniche, è il concreto depositario delle scelte compiute nella continuità (o discontinuità) storica. Come tutti gli strumenti di lavoro e come gli edifici, ha una memoria. I suoni, prodotti dalle tastiere, dalle corde e dai tubi, sono strumenti di conoscenza e contribuiscono al farsi stesso dell’idea. Verbum caro factum est, con tempo e fatica”.[4] Questo è un concetto importante: è lo strumento (di lavoro, prodotto da un lavoro)  a permettere la realizzazione di un’idea, da cui non potrà esserne staccata. Si potrebbe in un certo senso dire che  quel “mezzo è il suo messaggio”, per riprendere un celeberrimo concetto di McLuhan, teorico della comunicazione. E’ evidente che da questo punto di vista, dal quale si è posto una parte importante del pensiero compositivo moderno e contemporaneo, il problema della “comunicazione” musicale è leggibile in termini completamente diversi.

Torniamo per un momento all’antico, sulla scia di quel “paradigma indiziario” di cui parlavamo, seguiamone le tracce. Dove ci portano? Nel quattrocentesco Studiolo a tarsie di Federigo da Montefeltro a Gubbio, magnifico esempio di scienza della prospettiva, sulla scorta di una importante affermazione di Leonardo: “Sempre la pratica debbe esser edificata sopra la bona teorica; della qual la Prespettiva è guida e porta, e sanza questa nulla si fa bene ne’ casi di Pittura” (Codice G, 8 r). Vi si trovano raffigurati: un tamburello e un picccolo tamburo, due liuti, una citola, un’arpa, una ribeca, due cornetti, un corno da caccia, un piffero, un organo portativo. “Nel Rinascimento -scrive Winternitz – fu gettato un ponte, non meno sorprendente, tra il regno del visibile e quello del sonoro. Da Vitruvio fino agli ultimi epigoni di Palladio, i teorici hanno sempre esortato gli architetti a prendere le regole delle proporzioni armoniche dai musicisti, maestri in questo campo. Leonardo, che nella sua ricerca sulla prospettiva scoprì le proporzioni armoniche con cui un corpo che si allontana dall’occhio sembra diminuire, considerava la musica come ‘sorella della pittura’”.[5] Le intersezioni sono numerose tra Quattro e Seicento, fino a Borromini che proietta nello spazio una concezione armonica con effetti sorprendenti. Nel Barocco maturo il suono si farà spazio materializzato. Nella vertigine delle pieghe, delle curve e delle linee ondulate diventerà altra cosa, divaricando la forma della sua strumentalità, come era concepibile ancora nello Studiolo di Gubbio: “Gli strumenti musicali raffigurati nello studiolo hanno un’importanza maggiore di quella di una semplice decorazione; sono gli strumenti di un'”arte-scienza’ degna di venerazione al massimo grado. La citola di cui si è parlato prima è rappresentata insieme a due compassi e a una clessidra, cioè gli strumenti per misurare lo spazio e il tempo che, è vero, sono accessori comuni in uno studio del Rinascimento, ma che, posti fianco a fianco, e soprattutto insieme a uno strumento musicale, costituiscono una composizione che non può essere accidentale: sono certamente i simboli mediante i quali, secondo la teoria rinascimentale, viene indicato il fondamento matematico della musica”.[6]

Bisogna dire, d’alto canto, che la traccia che stiamo seguendo non è una traccia lineare. Da una lato, sulla base salda della ratio fondativa, essa ci apre uno scenario di una perfettibilità acustica legata al bel suono. Le invenzioni  stesse degli  strumenti – attraverso un processo di continue scoperte e migliorie tecniche, che si intrecciano con la teoria e il pensiero compositivo- seguono questo imperativo, raccontare in una grande narrazione epocale, la conquista dell’armonia. Dall’altro gli strumenti sono investiti da una  nostalgia talvolta confusa, da parte di alcuni teorici e compositori, per il mitizzato sistema enarmonico greco-antico di cui era scomparsa la testimonianza sonora, e da un desiderio di  allargamento dello spazio sonoro che avranno  dirette conseguenze  sulla stabilità del sistema temperato. “Quando Nicola Vicentino -scrive Giacomo Manzoni – ideava intorno al 1560 i suoi archicembalo e arciorgano, strumenti provvisti di numerose tastiere atte a ottenere una suddivisone dell’ottava in trentun parti anziché in dodici, quando nel 1606 il veneziano Vito Trasuntino perfezionava l’invenzione del Vicentino costruendo un ‘clavemusicum omnitonum’, in cui la divisione dell’ottava andava a sua volta ben oltre quella tradizionale, si trattava allora già di esperimenti mirati a ridare – sia pure con l’occhio rivolto al problematico cromatismo della musica greca antica – una diversa elasticità e ricchezza alla scala musicale. E se Alois Hába, con i suoi pianoforti a quarti e sesti di tono, tendeva soprattutto a riprodurre le caratteristiche di certa musica popolare boema, è chiaro che egli in pari tempo esprimeva anche – sia pure in maniera ancora rudimentale – un’esigenza diffusa di ampliamento della base sonora. Esigenza che già avevano avvertito Busoni nella sua Estetica della musica (con una proposta di allargamento della divisione dell’ottava fino a trentasei intervalli) e Arnold Schoenberg nel Trattato di Armonia, e che aveva fatto guardare il primo con simpatia e interesse vivissimo allo strumento elettronico ideato ai primi del Novecento dall’americano Thaddeus Cahill; esigenza che aveva indotto Teremin tra il 1910 e il 1920 a ideare un perfezionato strumento elettronico e molti musicisti di una quarantina di anni fa a impiegarlo nelle loro composizioni”.[7]

Come si potrebbe agevolmente constatare, la figura  polisemica dello  strumento musicale ruota – dal mito di Marsia fino al modernismo di Varèse, passando per lo sperimentalismo rinascimentale, per la problematica seicentesca del  suono-spazio di Borromini e quella illuministica della temperatura equabile del clavicembalo – sulla dinamica bi-polare: discreto vs continuo. Nel campo del “discreto” è possibile un ordine e un controllo negati nel campo del “continuo”. E’ probabile che non sia mai stata revocata veramente in dubbio -nemmeno da Varèse – la valenza concettuale del binomio ars-scientia, che trova nella musica un terreno metaforicamente privilegiato. Quello che emerge come latenza di un mito di lunga durata nella mentalità occidentale è lo sforzo utopico verso l’esplorazione del “continuo”, al di sotto o a margine di una pratica razionalistica che ha trovato, nella teorizzazione del  “discreto” – di  cui esempio probante è il “temperamento equabile” di Werckmeister, con la sua artificiale divisione dell’ottava – il modo di imprimere un ordine concettuale ai fenomeni della realtà. Varèse negli anni Trenta del Ventesimo secolo non negava che si potesse esplorare il “continuo” attraverso la razionalità della scienza (“Una cosa che vorrei veder realizzata è la creazione di laboratori di acustica dove compositori e fisici collaborassero”), negava che lo si potesse fare affidandosi agli strumenti musicali tradizionali. Questo è effettivamente un nodo, forse ancora non risolto, tra tentativo di produzione sonora per via elettrica (o elettronica) e perdita della memoria materico-formale (per non dire simbolica) degli strumenti storici. Forse bisogna dare tempo al tempo. Nessuno avrebbe potuto immaginare all’apparizione del gravicembalo col piano e il forte, costruito da Bartolomei Cristofori nel 1709 a Firenze, il ruolo che avrebbe svolto il pianoforte nell’Ottocento.

Il Novecento è il secolo dei tentativi e dei compromessi. I più avvertiti insegnanti di strumento (soprattutto di quelli a fiato, legni e ottoni, e a corda, ad arco e a pizzico; e gravi problemi si pongono anche ai cantanti), che hanno dovuto imparare loro stessi a produrre suoni inconsueti, riferiscono di una reale difficoltà a spiegare agli allievi la necessità che il compositore sente di scrivere strani simboli per voler dire, per esempio, slap, double tonguing, multifonico, suono “rotto”, glissato ascendente-discendente, che è un modo di esplorare porzioni acustiche inconsuete a fini musicali. Difficoltà accresciuta quando è implicato uno sforzo corporeo, che richiede un controllo e una tecnica notevoli, come nel caso della “respirazione circolare”. Prendiamo l’esempio del trombone: “la respirazione circolare – ha scritto un maestro di questo strumento, Michele Lomuto – è in ogni caso costituita dall’alternarsi di inspirazione ed ispirazione, per cui le espressioni ‘respirazione circolare’ o ‘respirazione continua’ non sono che due dei numerosi traslati entro i quali il trombone è immerso. (…) Il limite principale della respirazione circolare dipende dal fatto che lo sgonfiamento delle guance non riesce ad assicurare gli stessi livelli di pressione del fiato raggiungibili con l’azione del diaframma”. [8] Come si vede, da questi e da simili casi, il corpo e la sensibilità umane fanno tutt’uno con lo strumento. E’ una “messa in gioco”, piuttosto con che un'”interpretazione” in senso classico, dove la misura del virtuoso coniuga la musicalità all’apertura di un diverso, più difficile e rischioso, spazio sonoro. In altri casi le nuove tecniche sono legate alla problematica secolare del sistema temperato. Facciamo un altro esempio, relativo al flauto: “Esiste (…) una categoria che si pone in una prospettiva sostanzialmente diversa – ha scritto la nota flautista Annamaria Morini – e si tratta delle altezze non temperate, nel momento in cui, elevate a sistema, presuppongono una suddivisione ‘altra’ dello spazio frequenziale. E’ evidente infatti come ciò implichi alcune scelte linguistiche di fondo, che possono partire da presupposti anche lontani tra di loro e giungere a risultati altrettanto diversificati. Basti pensare da un lato a uno Scelsi e dall’altra a uno Xenakis, passando attraverso Nono (A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili, per orchestra a microintervalli, 1984)”. [9]

Nei casi migliori si insegna approssimativamente come si fa a produrre certi effetti, ma non il perché lo si fa, che con un po’ di buona volontà non è difficile spiegare, almeno in linea generale, ammesso che ci sia qualcuno che voglia saperlo. I motivi risiedono da un lato nella tensione tra discreto e continuo dello spazio sonoro  -cosa che investe la scelta e la necessità di usare dinamicamente una porzione dello spettro, cioè agendo sulla cosiddetta “banda critica” che relativizza l’importanza delle frequenze adoperate (“discrete” per definizione nel sistema temperato dei dodici suoni del totale cromatico); per fare un esempio: frequenze in posizione ravvicinata generano battimenti o effetti di coro che producono un arricchimento delle tessiture sonore; quando si allontanano un poco si attraversa una zona di dissonanza, mentre se si allontanano ulteriormente si ritrova una sensazione di consonanza. In questo modo si relativizza, nella conquista dinamica del continuo, anche la tensione tra dissonanza e consonanza su cui si è edificato, praticamente e teoricamente, il sistema musicale occidentale. Dissonanza e consonanza sono sullo stesso asse, da questo punto di vista concettuale e compositivo. Non c’è niente di “cervellotico” o “intellettualistico”, il fenomeno scaturisce dalle grande potenzialità che il suono (e il suo modo di percepirlo) ha in se stesso. Ma provate a chiedere agli strumentisti dell’orchestra di seguire e realizzare questo processo, almeno nei limiti del possibile, e vedrete che tra teoria e pratica continua a passare ancora molta strada. Dall’altro i motivi risiedono nella tensione tra fenomeni lineari e nonlineari, che presuppone la scelta di anteporre il timbro alle frequenze, che si rendono imprevedibili in un disegno caotico, e nella relativa difficoltà di modellizzare il timbro. Produciamo un altro esempio: l’ancia e la colonna d’aria di uno strumento a fiato come il flauto, l’oboe, il clarinetto o il fagotto possono vibrare simultaneamente a frequenze non semplicemente correlate. Impiegando certe diteggiature inusuali è possibile ridislocare le risonanze della colonna d’aria in modo tale che la colonna può vibrare a due frequenze irrelate, così che la frequenza più alta non è un multiplo intero della frequenza più bassa. Queste vibrazioni possono essere sostenute dall’ancia, che vibra alle stesse frequenze. Il risultato è una sonorità di qualità diversa dal consueto. Ci possono essere due o più componenti che possono essere distinte dall’orecchio come altezze differenti o può prodursi una sensazione di “roughness”, di rugosità, ricca di battimenti. Questi suoni sono stati chiamati multifonici. La difficoltà, in questo caso, consiste nella corrispondenza tra immaginazione e auscultazione interna da parte del compositore – prima di sfociare nella scrittura e nella codificazione segnica – e nel controllo del procedimento da parte dell’esecutore che, in una pratica non regolata da norme precise – relativamente soprattutto alla diteggiatura – si presuppone debba avere la mentalità dello sperimentatore accurato, oltre che un orecchio eccellente. La scuola spesso non insegna ad ascoltare, ma ad eseguire con più o meno velocità delle note scritte, così che le cose si complicano maledettamente. Sono solo parzialmente risolte dai casi di reale collaborazione tra compositore e interprete; questo spiega perché certi lavori non sarebbero stati neanche concepiti senza il particolare rapporto tra quel compositore e quell‘ esecutore, un fenomeno questo che è cresciuto in maniera esponenziale nell’ambito della musica nuova.

Più in generale, si può dire che la notazione semiografica odierna  è costretta nella camicia di forza di un altro sistema sonoro-concettuale, quello  legato ai trattati di strumentazione tardo-romantici e primo-novecenteschi, a partire da quello di Berlioz, che non permettono di notare pratiche fondamentali della ricerca timbrica contemporanea, come quelle esaminate e molte altre che si potrebbero menzionare. Rimskij-Korsakov prescriveva  nel 1891 che: 1) in orchestra non devono esistere qualità di timbro o suoni rudi o sgradevoli; 2) la scrittura orchestrale dovrebbe essere facile da eseguire; il lavoro di un compositore ottiene il miglior risultato se le parti sono ben scritte. A. Glazunov ha espresso benissimo i vari gradi di bontà di una partitura, che divide in tre classi: 1) quando l’orchestra suona bene eseguendo un brano a prima vista e benissimo dopo poche prove; 2) quando gli effetti orchestrali non possono essere messi in evidenza se non con grandissima cura da parte del direttore e degli orchestrali; 3) quando l’orchestra non suona mai bene”. Con la mentalità di Glazunov si affrontano ancora oggi partiture che appartengono a un altro universo concettuale ed epocale. Si lascia al lettore volenteroso  il compito di immaginare con quali risultati.

Certe ricerche timbrico-strumentali sono leggibili nel quadro dell’influsso di nuovi mezzi tecnologici sull’immaginazione sonora, così come aveva preconizzato Varèse negli anni Trenta. E’ come se il computer – ha detto un compositore francese – ci avesse aperto le orecchie e la mente, permettendoci di addentarci in un continente sconosciuto fatto di onde che si sovrappongono, oscillazioni di fase, modulazioni dinamiche, battimenti, rumori bianchi e rosa. Un continente affascinante, percorribile con il Nautilus della fantasia sonora, che ci svela le plaghe della materia allo stato nascente. Da questi strumenti siamo messi in grado di produrre noi stessi la materia. Ma non mancano risvolti ingannatori – da dove ci riappare la memoria  ammonitrice della traccia – e che si rivela qui e lì nelle testimonianze dei creatori. “Se osservo il sonogramma di un suono prodotto da un sintetizzatore Yamaha – ha scritto recentemente Steve Reich – vedo suoni a forma di dente di sega o ad onda quadra; mentre se osservo un suono di violino vedo un’onda sonora danzante in movimento”. E’ un’immagine suggestiva e non priva di verità, forse una testimonianza della traccia.

Il secolo che si avvia a una imperscrutabile conclusione ha conosciuto l’enorme espansione della tecnica. Questa ha influenzato la ricerca musicale molto più di quanto fosse influenzata da quest’ultima. Il risultato di questo stato di cose ha prodotto un arricchimento laddove era il pensiero compositivo a volerlo, molto meno dei casi in cui la macchina è stata immaginata come una panacea alla stanchezza del pensiero creativo. Si potrebbe produrre un esempio del primo caso nell’ interazione fra tecnica strumentale e tecnologia elettroacustica: “L’interazione strumento-nastro magnetico – ha scritto il violinista e didatta Enzo Porta – presenta una varietà di percorsi e di soluzioni veramente straordinarie. Stockhausen, Berio, Maderna, Pousseur la attuano senza quasi alterare le caratteristiche strumentali; Nono assume invece una posizione radicalmente diversa che mira ad un condizionamento reciproco fra i mezzi elettroacustici e quelli vocali e strumentali, via sulla quale si pongono, con caratteristiche particolarissime, Manzoni e Gentilucci. Ligeti e Penderecki applicano al coro e all’orchestra procedimenti che danno vita ad atmosfere elettroniche; altri autori, vicini alle idee di John Cage, si avvalgono della tecnologia quale ulteriore miniera di eventi musicali ( e ci viene spontaneo alla mente il nome di Kagel); altri ancora si avvicinano episodicamente all’elettronica senza che questo fatto si significativo per il loro percorso”. [10]

Sono esperienze quanto mai varie, arricchite nel corso degli anni Ottanta dagli esperimenti col “live electronics” e più in generale dalle sperimentazioni prodottesi all’ IRCAM di Parigi, che ha costituito una specie di centro guida di musicisti “vagantes” provenienti da tutto il mondo. Ma ci mancherebbe una parte essenziale del quadro novecentesco se non tenessimo conto del fatto che – al di là del contatto col mondo della tecnica – siamo solo gli ultimi percorritori di una traccia che attraversa le vie dell’identità (di noi occidentali) e della differenza.  Non dovremmo infatti dimenticare che il pensiero compositivo novecentesco più avvertito – dopo che la civiltà che lo ha espresso le ha praticamente distrutte – ha avuto il merito, in una prospettiva anti-eurocentrica,  di aver aperto le porte alla memoria del rimosso di culture popolari e di civiltà extra-europee. Quando parliamo di timbro non dovremmo dimenticare che è il linguaggio della corporeità che ci ha insegnato a capirne la valenza rituale. Ascoltiamo le parole di André Schaeffner: “Il piede batte sul suolo. Ma con quale parte lo colpisce? Con la pianta, col tallone o con la punta: sfumature di timbro di cui si serve volta a volta il ritmo e grazie alle quali si arricchisce. Più ancora delle nacchere è il celebre colpo di tallone della danzatrice e il violento battito di tutta la pianta del piede del danzatore spagnolo che permettono al ritmo di esprimersi in una danza quasi statica – lo zapateado per esempio -; volta per volta esso muore e risorge come da sottoterra”. [11] E’ la traccia di un altro mito? O la variazione di uno archetipico più antico di quello greco, – i cui frammenti si trovano disseminati in tutte le culture umane senza distinzione – secondo il quale la musica esprime il dialogo tra il corpo e la sua ombra sulla soglia delle tenebre? “Il suono è la base del pensiero mistico e ha una qualità mistica quasi straordinaria – ha scritto Marius Schneider -. Una corda tesa è una forza latente e silenziosa; comincia a suonare e a produrre suoni simpatici (armonici) che, nell’emanare da essa, risultano più alti del suono stesso fondamentale, sempre che li richiami una forza che ‘risvegli’ la corda nel momento che viene toccata. In tal senso, la corda è un modello paradigmatico della creazione. Le forme alte derivano dalle forme basse, cioè evolvono dal basso all’alto, a condizione che li richiami una forza superiore ad esse, che soffi loro la vita e che spieghi le loro possibilità materiali. La musica è la più alta spiritualizzazione della Natura, perché esprime la Natura con un minimo di materia. Esalta e nobilita tutto quanto esprime perché in esso tutto è forma e sostanza. Ma tutte le tradizioni mistiche convengono che per comprendere questo linguaggio occorre abbandonarsi al ritmo creativo, e non con lo scopo di esaurirlo, ma solo per viverlo. Agendo così, sappiamo quello che facciamo, ma non conosciamo quello che facciamo o in che modo lo facciamo. L’abbandonarsi al ritmo prova, inoltre, che molto spesso possiamo captare meglio le cose, se non vogliamo conoscerle con eccessiva esattezza formalistica”.[12]

Nella nostra tradizione è forte il richiamo dell’”esattezza formalistica”. Ma in musica permane uno scarto dalla norma, un residuo che dal mito conduce all’ambivalenza di cui ci ha parlato Mickail Bachtin e che apre lo spazio della polisemia, dove la materia si prende la rivincita sulle strutture logiche del linguaggio. La musica del Novecento, pur all’interno di una  tradizione razionalistica,  ma con la tentazione di uscirne, si è imbattuta nello stretto, angoscioso  crinale in cui il  senso si mischia al non-senso, riscoprendo – quasi per forza di cose – l’archetipo da cui è nata tutta la musica, il timbro-poliritmico. Ma  sembra incerta, combattuta fra l’esigenza di percorrerlo attraverso antiche vie strumentali (con strumenti musicali distillati dalla tradizione) e il desiderio di aderire al radio-magnetismo del grande respiro dell’universo, costruendo “strumenti” fatti di pure onde; di farsi quasi “attraversare” o “catturare” dalla materia. Ma osiamo credere che il mito pluri-culturale, che parla la lingua del mondo e non di una sola razza, che affida a un corpo che canta e che suona il destino di vivere la lotta della creazione, non si sia esaurito del tutto e forse che non sia esauribile in generale. Lì siamo sulla traccia. Traccia di un imprevedibile passaggio.

NOTE

[1] E. Winternitz, Gli strumenti musicali e il loro simbolismo nell’arte occidentale, Boringhieri, Torino 1982, p. 125.

2 Cfr. C. Ginzburg, “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979, pp. 59-106, e ora in  Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1992, pp. 158-209.

3 E. Varèse, Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Prefazione di G. Manzoni, Introduzione e cura di L. Hirbour, Ricordi-Unicopli, Milano 1985, p. 51

4 L. Berio, “Il suono della memoria fantastica”, in Musicalia, novembre 1994, p. 56..

5 E. Winternitz, Gli strumenti musicali, op. cit., p. 49.

6 E. Winternitz, Gli strumenti musicali..., op. cit., p. 50.

7 G. Manzoni, Tradizione e utopia. Scritti di musica e altro, a cura e con una introduzione di Antonio De Lisa, Feltrinelli, Milano 1994, p. 85-86.

8 M. Lomuto, “Percorsi strumentali e lessico sonoro del ‘900: il trombone”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 3, N. 1, febbraio 1991, p. 80.

9 A. Morini, Percorsi strumentali e lessico sonoro del ‘900: il flauto, in  Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 2, N. 4, novembre 1990, p. 56.

10 E. Porta, “Il violino nell’epoca della mutazione sonora”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 3, N. 4, novembre 1991, p. 88-89. Si veda anche, dello stesso E. Porta, “Il violino nel ‘900”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 2, N. 3, agosto 1990. Cfr. anche L. Bova – G. Tisato, “La faccia nascosta dell’arpa. Un percorso nello spazio timbrico delle nuove tecniche esecutive”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea,, fascicolo 13, Anno 6, N. 2-3, dicembre 1994, pp. 43-82.

11 A. Schaeffner, Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo 1987  (1 ed. 1978), p. 47.

12 M. Schneider, Gli animali simbolici e la loro origine musicale nella mitologia e nella scultura antiche, Rusconi, Milano 1986, p. 148.


[1] E. Winternitz, Gli strumenti musicali e il loro simbolismo nell’arte occidentale, Boringhieri, Torino 1982, p. 125.

[2] Cfr. C. Ginzburg, “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979, pp. 59-106, e ora in  Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1992, pp. 158-209.

[3] E. Varèse, Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Prefazione di G. Manzoni, Introduzione e cura di L. Hirbour, Ricordi-Unicopli, Milano 1985, p. 51

[4] L. Berio, “Il suono della memoria fantastica”, in Musicalia, novembre 1994, p. 56..

[5] E. Winternitz, Gli strumenti musicali, op. cit., p. 49.

[6] E. Winternitz, Gli strumenti musicali..., op. cit., p. 50.

[7] G. Manzoni, Tradizione e utopia. Scritti di musica e altro, a cura e con una introduzione di Antonio De Lisa, Feltrinelli, Milano 1994, p. 85-86.

[8] M. Lomuto, “Percorsi strumentali e lessico sonoro del ‘900: il trombone”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 3, N. 1, febbraio 1991, p. 80.

[9] A. Morini, Percorsi strumentali e lessico sonoro del ‘900: il flauto, in  Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 2, N. 4, novembre 1990, p. 56.

[10] E. Porta, “Il violino nell’epoca della mutazione sonora”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 3, N. 4, novembre 1991, p. 88-89. Si veda anche, dello stesso E. Porta, “Il violino nel ‘900”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea, Anno 2, N. 3, agosto 1990. Cfr. anche L. Bova – G. Tisato, “La faccia nascosta dell’arpa. Un percorso nello spazio timbrico delle nuove tecniche esecutive”, in Sonus – Materiali per la musica contemporanea,, fascicolo 13, Anno 6, N. 2-3, dicembre 1994, pp. 43-82.

[11] A. Schaeffner, Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo 1987  (1 ed. 1978), p. 47.

[12] M. Schneider, Gli animali simbolici e la loro origine musicale nella mitologia e nella scultura antiche, Rusconi, Milano 1986, p. 148.

Antonio De Lisa

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