Antonio De Lisa- I Basilischi lucani – La quinta mafia d’Italia

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«In Calabria sapevo che su cento persone che incontravo qualcuna era onesta. In Basilicata invece è impossibile capire chi siano le guardie e chi siano i ladri».

Vincenzo Montemurro

Già magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Potenza

Dal punto di vista dell’indagine storiografica è solo di recente che la letteratura sul fenomeno mafioso ha assunto un rango di spicco nella disciplina. Per anni la materia è stata trattata – con le dovute eccezioni- quasi solo esclusivamente in ambito giornalistico. Ora però il quadro complessivo sembra farsi più chiaro. Ed è per fornire un contributo a questo quadro che parliamo di un’organizzazione poco conosciuta in ambito nazionale.

La quinta mafia italiana, quella lucana, si chiama come il titolo di un film, I Basilischi, girato  nel 1963 tra i Sassi di Matera dalla regista Lina Wertmüller .
La criminalità organizzata lucana è stata ribattezzata con lo stesso nome di quel film che raccontava un’Italia meridionale fatta di “vitelloni” opulenti e oziosi.

I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. E’ specializzata in narcotraffico, traffico di armi, rapine, detenzione e commercio di esplosivi, usura, gioco d’azzardo.

Gli arresti del 1999

Grazie ad intercettazioni e all’intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati.

Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d’Agri e del Melfese sono controllate da cosche che fanno capo alla ‘Ndrangheta di Rosarno.

Diramazione di una ‘ndrina della ‘ndrangheta calabrese

I Basilischi nascono come una ‘ndrina della ‘ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Ottenuto difatti il nulla osta dalle ‘ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del sud Italia. L’organizzazione venne effettivamente formata da Don Saru dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Con l’inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l’appalto ottenuto all’Ospedale San Carlo da un’azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla ‘ndrangheta.

I Basilischi sono stati oggetto di una inchiesta della procura antimafia di Potenza, “l’operazione Chewingum“, che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell’organizzazione.

Nel 2006, nell’inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d’Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino.

In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la ‘ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette ‘ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi.

Le zone interessate

Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d’Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione) e il Melfese.

La sentenza del Tribunale di Potenza del 2007

Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza ha accertato l’esistenza della “Famiglia Basilischi”. E contemporaneamente è stata esclusa la correità di Vittorio Emanuele di Savoia.  Il Tribunale – dopo 12 anni di indagini – ha condannato 26 imputati (alcuni già detenuti) per associazione a delinquere di stampo mafioso (416 bis) per complessivi 242 anni di carcere. Secondo i giudici tutto è cominciato con l’omicidio dell’agente di polizia Francesco Tammone. La cosca si è voluta affacciare sulla scena criminale con un’azione eclatante. Ma questo è solo uno degli episodi che hanno portato i giudici a decidere di condannare per associazione di stampo mafioso Gino Cosentino, Santo Bevilacqua, Mario Castellaneta, Angelo Chiefa, Antonio Cossidente, Michele Danese, Giuseppe D’Elia, Antonio De Paola, Vincenzo Di Cecca, Gennaro Durante, Angelo Greco, Giuseppe Lopatriello, Franco Mancino, Riccardo Martucci, Silvano Mingolla, Antonio Mitidieri, Eugenio Pesce, Francesco Pontiero, Saverio Riviezzi, Nazzareno Santarsiero, Antonio ed Egidio Santoro, Nicola Sarli, Cosimo Sasso, Salvatore Scarcia e Carlo Troia. Per i giudici sono loro i basilischi.

I boss e il Capo, “Faccia d’angelo”

E questi sono i loro boss: Antonio Cossidente, Michele Danese, Franco Mancino, Franco Pontiero, Carlo Troia. Ma il capo assoluto per i giudici del Tribunale di Potenza «è Gino Cosentino», detto “faccia d’angelo”, esattamente come Felice Maniero, boss della mala del Brenta e, come lui, ufficialmente pentito. Cosentino, dal ’94, all’interno delle carceri lucane ha cominciato quel proselitismo che 13 anni dopo ha assunto le vesti di una mafia autonoma.

La deposizione della sentenza

La Procura della Repubblica di Potenza – le cui 700 pagine di motivazioni sono state  presentate a distanza di oltre sette mesi dalla sentenza in primo grado, resa alla vigilia di Natale 2007 – racconta  la storia di una mafia violenta, radicata, che fa proseliti e raccoglie consensi, collusa con il potere politico, protesa verso i centri massonici occulti e pronta a spartirsi i ricchi affari che nascono dai finanziamenti comunitari e pubblici. La sentenza è opera dei giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi. E’ la sentenza sulla Quinta mafia, quella dei basilischi. I tre giudici hanno scritto quasi 700 pagine di motivazione. Lo dice il Tribunale: i Basilischi «sono un’associazione di stampo mafioso».

“E’ stato affermato che la prova degli elementi caratterizzanti l’ipotesi criminosa del 416 bis (l’associazione a delinquere di stampo mafioso ndr) può essere ben desunta con metodo logico induttivo in base al rilievo che il clan presenti tutti, o almeno alcuni, degli indici rivelatori del fenomeno mafioso, quali la segretezza del vincolo, i rapporti di comparaggio, il rispetto assoluto
del vincolo gerarchico, l’accollo delle spese di giustizia da parte della cosca, il diffuso clima di omertà come conseguenza e indice rivelatore dell’assoggettamento alla consorteria”.

Il pubblico ministeroVincenzo Montemurro lo aveva detto chiudendo la sua requisitoria nel corso del maxiprocesso. Nella sentenza i giudici affrontano tutti i temi che si sono presentati nel corso del processo. Dall’attendibilità dei collaboratori di giustizia al traffico di droga e di armi. Le lettere in carcere e l’omicidio del poliziotto Francesco Tammone. C’è un capitolo sul rito di affiliazione.

Scrivono i giudici: «All’esito dell’istruttoria dibattimentale, ritiene il Tribunale che la formula di riconoscimento rappresentava il principale rituale di una associazione a delinquere avente le caratteristiche per essere qualificata di tipo mafioso».

I giudici fanno risalire la fondazione dei Basilischi nel 1994 “quando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato faccia d’angelo, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all’interno delle carceri di Potenza e Matera cominciò ad avvicinare altri detenuti con l’intento di creare una organizzazione che, con l’avallo di alcune famiglie calabresi, avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata”.

Vincenzo Montemurro: Una sentenza storica

A questo punto diamo la parola a Roberto Galullo (1), del Sole 24 Ore, che ha scritto a caldo a ridosso della deposizione della sentenza, intervistando il Pm del processo: “È una sentenza storica – ha dichiarato Vincenzo Montemurro, il magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Potenza che ha dato anima e corpo al maxiprocesso – che dimostra come la mafia lucana abbia un proprio profilo, un proprio radicamento sul territorio che tende a escludere dai clan chi non è nato in questa terra e che è pronta a scendere a patti con le altre mafie pur di fare affari”.

Una mafia che ha emulato anche nei riti di affiliazione la ‘ndrangheta calabrese che, per prima, è penetrata in questa regione, terreno fertile successivamente anche per la Camorra. Cosa Nostra, che pure aveva avuto il diritto di primogenitura grazie al soggiorno obbligato in epoca fascista di don Calogero Vizzini e negli anni 70 di Giuseppe Mandalari, massone e uomo di fiducia di Totò Riina, è stata messa all’angolo.

L’inchiesta della Dda di Potenza e della Procura mette in luce un sodalizio teso ad acquisire il controllo delle attività economiche e imprenditoriali in primis della provincia di Potenza, a rilasciare concessioni e autorizzazioni amministrative attraverso il ricorso a funzionari e dirigenti corrotti o vicini alla criminalità, a condizionare illecitamente i diritti politici dei cittadini, orientando il voto. Ma la forza dei Basilischi per i giudici andava (e va) oltre.

Il clan sottoponeva a una sistematica attività di estorsione i commercianti e le imprese che vincevano gli appalti privati o quelli pubblici in maniera pulita. I Basilischi praticavano l’usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati.

“La crisi della politica e delle istituzioni, la questione morale e democratica aperta in Basilicata – dichiara l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione – rappresentano un punto di crisi dell’intero quadro democratico del Paese”.

La sentenza – nei confronti della quale è stato presentato appello – chiude un capitolo ma ne lascia aperti altri. Innanzitutto quello dei legami con la politica. Non è un caso che ci siano altri filoni d’indagine aperti che chiamano in causa una cupola politica trasversale. Da quell’intreccio, si è svincolato Gianfranco Blasi, ex deputato di Forza Italia, che aveva scelto il richiamo a Cecco Angiolieri per il suo libro dedicato alle conversazioni sulla politica lucana, S’io fossi foco, scritto a fine 2005. Con quel fuoco non ha arso il mondo ma è anche riuscito a non bruciarsi, nonostante la Procura della Repubblica di Potenza lo ritenesse tra gli elementi di spicco dell’intreccio politico-malavitoso. Per lui, Blasi, l’ex onorevole-poeta che s’incontrava con il boss Renato Martorano «ma solo per redimerlo e riportarlo sulla retta via», la Camera dei deputati non aveva concesso l’autorizzazione a procedere. «Poi – spiega Montemurro – è subentrata anche la legge Pecorella e così è definitivamente uscito dal processo e dalle indagini». Blasi – a differenza di altri indagati per altri processi in corso, attaccati alle poltrone locali – è stato (apparentemente) costretto a uscire dalla politica attiva, che in Basilicata continua a cementare affari e malavita.
Il capitolo più delicato è però quello del radicamento della mafia lucana che sopravviverà a questa sentenza.

“Quando da anni i boss locali si recano in pellegrinaggio in Calabria presso la famiglia Morabito o altre ‘ndrine – continua nella sua analisi Montemurro – non possiamo pensare di avere sconfitto la mafia lucana. Abbiamo solo mandato in galera alcune persone”.

I Basilischi, insomma, sopravviveranno a se stessi e l’appello di una società civile assente è affidato alle parole di don Marcello Cozzi, responsabile regionale di Libera, che ha appena mandato alle stampe Quando la mafia non esiste – Malaffare e affari della mala in Basilicata.

“Il rischio – spiega Cozzi – è che ora la classe politica e dirigente si senta appagata da questi arresti e volga lo sguardo da un’altra parte continuando a fare ciò che faceva prima. Bisogna alzare la guardia che, va riconosciuto, in questi anni è stata tenuta alta soprattutto dalle Forze dell’Ordine e dalla magistratura. Ora spetta a noi fare il resto”.

Ma sarà difficile, perché come conclude Montemurro, che ha un passato professionale di magistrato antimafia a Crotone e Catanzaro, «in Calabria sapevo che su cento persone che incontravo qualcuna era onesta. In Basilicata invece è impossibile capire chi siano le guardie e chi siano i ladri».

Le affiliazioni

Sono affiliati all’organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest’ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell’inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

La dimensione storica di questi avvenimenti si dovrà sostanziare nel tempo di un’articolazione tematica che sappia vedere gli intrecci tra malavita ed economia lucana, tra malavita e potere politico. E non è un’operazione semplice. Le fonti sono del tutto empiriche, affidate a sentenze di tribunali ed articoli giornalistici. Scarseggiano dati e statistiche. Sono gravemente insufficienti le indagini documentarie. Ma è un’impresa che pur qualcuno – tra gli storici interessati all’argomento- dovrà pur tentare.

NOTE

(1) Roberto Galullo, “Quella potente rete dei Basilischi, la quinta mafia italiana”, in Il Sole 24 ore 8 luglio 2008

BIBLIOGRAFIA

Pantaleone Sergi, Gli anni dei Basilischi. Mafia, istituzioni e società in Basilicata, Milano, Franco Angeli editore, 2003.

Marcello Cozzi, Quando la mafia non esiste – Malaffare e affari della mala in Basilicata.

Antonio De Lisa

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