Antonio De Lisa – La Cina è vicina

Antonio De Lisa – La Cina è vicina

Quando si arriva in vista del Mar Cinese Meridionale si ha l’impressione di nuotare in un acquario. Un acquario gelatinoso, melmoso, soffocante. E’ certo una prima impressione, ma è difficile scrollarsela di dosso definitivamente. Incide senz’altro il clima tropicale, il traffico, la ristrettezza degli spazi. La città si sviluppa tutta verso l’alto. A Hong Kong avevamo qualche amico, così risulta in un certo senso tutto più facile. Gli arranco dietro. Con gli occhi di oggi rifletto su che cosa debba significare per quella città asiatica lo scoppio del contagio da Sars: un incubo; con 105 casi di morte sui 1.458 casi registrati in quella città. Un vero incubo.
I giornali di tutto il mondo in questi giorni parlano insistentemente della Cina. I cinesi travolti dal crollo delle Borse dicono che è la vendetta del mercato contro lo Stato. La Cina è scossa dalla prima grande crisi economica dai tempi di Deng Xiaoping. La leadership politica del presidente Xi Jinping vacilla. Prima o poi il capitalismo comunista avrebbe presentato il conto. Milioni di cinesi ricordano che le autorità, non più tardi di giugno, incitavano la gente a comprare azioni.
L’ex colonia britannica è la città del “non luogo” metropolitano, così come l’ha definito un sociologo francese. Il più evidente è lo shopping center. Enormi shopping center sono collegati l’uno all’altro da strade pedonali sopraelevate. E’ come una rete di labirinti. Ma in questo “non luogo” persiste una credenza antica, geomantica e superstiziosa, il “feng shui”, il buon auspicio, che ingarbuglia con le sue regole capricciose la rete dei labirinti urbani. Se un terreno risulta privo di buon auspicio non vi costruiscono sopra, col risultato di intasare le zone di buon auspicio elevando grattacieli giganteschi.
Per capire la Cina di oggi è stato illuminante un libretto uscito da noi nel 2012, un vademecum del pianeta Cina, articolato in dieci parole chiave – alcune storiche come “popolo” e “rivoluzione”, altre di recente creazione, come “taroccato” e “huyou”, fregatura – in cui Yu Hua coglie i punti nevralgici di una società malata e svela cosa si nasconda dietro i numeri trionfali di uno sviluppo tanto rapido quanto sbilanciato. Le nostre interpretazioni eurocentriche vanno in frantumi e la Cina diventa, così, leggibile. “La Cina in dieci parole” non è un’invettiva che strizza l’occhio al lettore, ma un canto appassionato delle sofferenze di un popolo, della meschinità degli esseri umani e della loro grandezza. È coraggioso perché racconta lo svuotamento di senso della parola “popolo” del dopo Tian’anmen, l’insospettabile fallimento delle Olimpiadi di Pechino, la tragedia di orde di venditori abusivi, l’orrore delle demolizioni forzate e un paese dove non esistono più leader. Soprattutto, Yu Hua ama raccontare storie, tenere, comiche, esilaranti, terribili, commoventi: migliaia di bambini in un villaggio remoto che ignorano il gioco del calcio, Obama che campeggia sorridente sui cartelloni pubblicitari di un’imitazione del Blackberry, gente che si accalca sulla strada per stringere la mano alla sosia in gonnella di Mao, una coppia di disoccupati che si suicida perché non può comprare una banana al figlio, un bambino che chiede alla polizia di rilasciare i suoi rapitori perché sono troppo poveri…
Dopo un avventuroso viaggio su un bimotore da Hong Kong siamo atterrati a Canton (Guangzhou), una delle capitali, con Pechino e Shangai, della nuova Cina. Canton non è trendy come la città più “americana” della Cina, Shangai, dove ai tavoli dei megaristoranti (il “Red snapper” può ospitare 3.000 persone) i ravioli al vapore ripieni di brodo di carne e polpa di granchio (“jiao zi”) vengono serviti da camerieri su pattini a rotelle, ma è sempre un grande laboratorio del paese dell’estremo oriente che ha osato sfidare il mondo occidentale sul suo stesso terreno, quello della competizione commerciale. L’amico orientale ci fa da Cicerone, esaudendo divertito le mie richieste: la televisione, l’università, le biblioteche, i luoghi di ritrovo dei giovani.
La Cina inaugurò la sua prima stazione televisiva solo nel 1958, e fino al 1979, in tutto il paese col suo miliardo di abitanti, c’erano meno di cinque milioni di apparecchi. Tuttavia oggi i cinesi stanno diventando fanatici della televisione quanto gli americani e i giapponesi, per lo meno nelle zone urbane dove si concentra il maggior numero di televisori.
Quando una stazione di Pechino mandò in onda il suo primo programma americano, una serie di telefilm di fantascienza che ha come protagonista un uomo che sa nuotare come un pesce, “The Man from Atlantis”, il numero delle persone che il sabato sera rimase in casa per seguire il programma fu tale che i cinema, di solito superaffollati, rimasero vuoti e il numero dei crimini a Pechino scemò di colpo, come mi racconta un giornalista dello studio televisivo.
Le autorità politiche del paese avevano scelto un programma molto strano, per non dire inverosimile, come prima serie regolare di telefilm stranieri. Lo sceneggiato, privo di qualsivoglia messaggio sociale, mostrava gli occidentali, in questo caso americani, in ambientazioni ricche, seducenti e avventurose, niente che scoraggiasse l’invidia per il modo di vivere di quei paesi. La ragione, mi spiega il giornalista, risiedeva nel fatto che la stazione televisiva governativa disponeva di un bilancio ristretto (trasmetteva una quantità minima di pubblicità) e “The Man from Atlantis” era la serie più economica che la Cina avesse potuto comperare ad Hollywood.
E’ la volta di una biblioteca. Nello schedario del dipartimento di storia cerco la scheda di Trotsky, così, per curiosità, ma la scheda rimanda a Lev Bronstein, il suo nome d’origine. Vado a cercare Bronstein e la scheda rimanda a Trotsky. In seguito un laureando mi dice che lo stratagemma è il residuo di un recente passato, in quanto le autorità politiche cinesi erano fino a non molto tempo fa ancora pieni d’ammirazione per Stalin e consideravano Trotsky un apostata. Quelle schede sono semplicemente non aggiornate, perché ora anche Stalin è scomparso dai punti di riferimento. Fuori campeggiano grandi cartelloni pubblicitari di marche giapponesi e dentro le carte disputano ancora dell’ortodossia di Trotsky, ma sono solo carte; la vera Cina ha fatto un passo in avanti e nessuno può prevedere quello che ci riserverà in un immediato futuro, anche se oggi ha ricevuto un duro colpo dal crollo delle borse.
Poi, questo gioco di carte può stupire soltanto chi non sa che l’Oriente, da quello vicino a noi, il Medio Oriente, a quello più lontano, viveva e ancora vive – sia pure in maniera diversa – in un perenne stato di scissione mentale: da un lato si avverte l’esigenza di salvaguardare quello che si è acquisito con tanti sacrifici, un’identità nazionale e politica (Cina e Vietnam), talvolta con caratteristiche etniche e religiose (mondo islamico, India), dall’altra si guarda con ammirazione a Occidente. Certi fenomeni sono normali, anche se possono apparire curiosi; questo mi è capitato di vederlo in Tunisia come in Turchia, in India come in Tibet e in Cina. Certe titubanze nel rivelare i dati del contagio derivano anche da questo.
Il Sichuan è stato il luogo di incubazione del terribile virus Sars, la cosiddetta polmonite atipica. Il 17 maggio 2003 le statistiche hanno fanno registrare 7.761 casi di contagio da Sars. Sembra che il responsabile della Sars non sia stato un solo virus, ci sono stati forti sospetti sul corona, della famiglia dei virus che danno banali raffreddori. Forse erano implicati altri microrganismi complici ed è quasi certo che si fosse trattato di un nuovo ceppo di corona mutante.
Il bollettino dell’Oms di quel giorno parlava di 33 nuovi casi in più rispetto al venerdì precedente, concludendo che l’epidemia stava frenando, se si tiene conto del fatto che fino a quel momento il contagio viaggiava alla media di 100 casi al giorno. Intanto il totale era salito a 623 vittime. Sabato c’erano stati 12 morti, 7 in Cina e 5 ad Hong Kong. Ma il capo degli ispettori dell’Oms, il dottor Daniel Chin, frenava gli ottimismi: “Basandoci sugli ultimi dati, riteniamo che il calo dei nuovi casi di infezione registrato negli ultimi giorni non derivi purtroppo da un reale contenimento dell’epidemia. Abbiamo ragione di ritenere che, da qualche tempo, i medici negli ospedali di Pechino abbiano cominciato a non dichiarare i casi sospetti che manifestano sintomi lievi o allo stato iniziale, come invece facevano prima, e come richiesto dal nostro protocollo di analisi. Quindi, per ora, riteniamo che la situazione non sia realmente migliorata rispetto a quando si registrava una media di 100 nuovi casi al giorno”.
Il corona era mutato rispetto a quelli umano e animale noti, diventando nei passaggi più cattivo. Una delle caratteristiche dei coronavirus era di far evolvere la struttura del loro genoma, acquistando nuova virulenza. Lo hanno fatto attraverso vari meccanismi, come ricombinandosi con altri virus. Per questo aveva un genoma voluminoso: il doppio rispetto ai virus influenzali e all’hiv. Qualcuno ha sostenuto che le pianure del sud-est della Cina, appunto, dove “l’uomo convive in promiscuità con oche, volatili e maiali” abbiano costituito un habitat ideale. Ma perché proprio lì? Non è certo l’unico posto in cui si verificano queste circostanze. Ma purtroppo la società dell’informazione, che sembra sapere tutto di tutto, quando si verifica un episodio del genere va letteralmente in tilt. Più che informazione, infatti, possiamo parlare di propaganda, a oriente come a occidente.
Nei sintomi la sindrome asiatica somiglia alla peste ateniese descritta da Tucidide: occhi rossi, febbre, starnuti, raucedine; poi il morbo scende agl’intestini (Tucidide, II, 49). Nella tempesta delle fortune saltano gli equilibri, cadono i motivi inibitori, sparisce la pietà e la benevolenza; lo scioglimento dei connettivi civili libera cariche aggressive latenti; ognuno diventa predone (II, 53). Lucrezio da parte sua postulava un “morbidus aer” o effluvi dalla terra imputridita sotto “intempestivae pluviae” ovvero arsa dal sole (“De rerum natura”, VI, 1093-1102) e anch’egli descriveva l’effetto del morbo sul consesso umano. La città degli uomini va in sofferenza e l’ordine civile cede il posto alla barbarie. Così come l’ha descritto Boccaccio nel “Decameron” parlando della Firenze colpita dalla peste a metà Trecento. Non si sfugge al morbo, muoiono ricchi e poveri. E non c’è solo Firenze, l’intera penisola è colpita e a ondate nel tempo.
In una prospettiva di lunga durata le epidemie giocano sul tavolo della storia lo stesso ruolo delle grandi battaglie e delle alleanze politiche.. Questo è vero soprattutto per il passato, ma non mancano casi anche nella storia recente. Si pensi alla cosiddetta “spagnola”, che dal 1918 al 1920, subito dopo la Prima guerra mondiale sembra abbia mietuto dalle 20 alle 40 milioni di vittime. O al virus influenzale dell’asiatica, che uccise nel 1957 un milione di persone. Nel 1968 il ceppo virale della “Hong Kong” (ancora questo nome), originato come quello precedente dagli uccelli, causò più di 700 mila vittime. Nel 1977 la combinazione micidiale di ceppi delle due precedenti influenze provocò il destarsi della “russa”. Infine, nel 1997, per la prima volta un ceppo virale ritenuto esclusivo degli uccelli passa all’uomo senza mutare.
Il “must” della Honk Kong di oggi è il Felix, all’ultimo piano del grandioso Peninsula Hotel (progettato da Philippe Starck), il bar-ristorante più “cool” della città., mentre nella Cuaseway Bay si espongono le creazioni ispirate all’Oriente della stilista Vivienne Tam, cinese d’origine ma trapiantata a New York. Anche l’arte contemporanea, che non ha mai avuto un grande mercato a Hong Kong, mostra o mostrava una certa controtendenza, con le gallerie dei giovani artisti di Para/Site e Laspace. Ma dietro l’ottimismo ufficiale e le ufficiose preoccupazioni emerge il volto inquieto della Cina d’oggi, a diciassette anni circa dal mio viaggio fatto nell’agosto 1986. Nel cinema di Wong Kar-wai e John Woo si manifesta la perdita d’identità di questo paese, segnato da “non luoghi” metropolitani, da scenari iperrealisti e da personaggi-fantasma “che attraversano inquieti megalopoli punteggiate da luci al neon” (Gianni Canova). Tuttavia all’ora di pranzo i manager e i dirigenti di un certo livello si tolgono la cravatta e vanno in palestra a praticare il “kung fu”, più una filosofia di vita che una lotta. Ma com’è il “kung fu” praticato con una mascherina? Non lo sapremo mai. I cinesi sono molto discreti e riservati, specie nei confronti degli occidentali. Ne hanno viste tante. Ci sono due cose che colpiscono nei romanzi di molti scrittori cinesi, un buco nero che è costituito dalla Rivoluzione culturale e una vetrina di splendenti ma non sempre positive novità, rappresentata dal passaggio dal comunismo all’economia di mercato. In questo libro del premio Nobel Mo Yan, “Le rane”, ci sono entrambi, ma inegualmente rappresentati. Riesce bene la descrizione del primo, meno bene quella della seconda. La critica si è divisa sul romanzo. C’è da dire che Mo Yan è dotato di una grande maestria narrativa, non scevra di una vena elegiaca. Colpisce soprattutto la contraddizione solidale, per così dire, tra costumi tradizionali e mentalità rivoluzionaria e la dissoluzione di ogni valore emersa coll trionfo del capitalismo alla cinese. Coltissimi i riferimenti alla cultura cinese più sotterranea e arcaica. Chi coltiva una concezione del romanzo come conoscenza per così dire storico-antropologica può godere liberamente della lettura. Chi è più attento alla storia in senso narrativo non ne resterà deluso.
Oggi le cronache cinesi parlano un linguaggio diverso. La fine di un’era. Il consenso popolare per il vertice si è eroso. A giugno lo schiaffo elettorale di Hong Kong, a luglio il primo crollo dei mercati, in agosto la catastrofe di Tianji, il caos delle borse e il no dell’Occidente alla parata militare anti-giapponese del 3 settembre. Rinviano le cifre, hanno paura dei numeri. Anche le Borse di tutto il mondo. La Cina è vicina.

Antonio De Lisa
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