Letteratura assiro-babilonese

N.B.- Questo articolo riflette lo stato della ricerca intorno agli anni ’30 del Novecento. Lo si pubblica per testimoniare l’avanzamento degli studi nel corso del tempo


Per letteratura babilonese e assira noi intendiamo tutto ciò che scrissero i Babilonesi e Assiri, senza riguardo alcuno alla forma delle scritture stesse. Essa abbraccia quindi tanto poemi ed inni, quanto vocabolarî e documenti giuridici. Non si sogliono comprendere, quando si parla di questa letteratura, soltanto le opere letterarie nello stretto senso della parola, perché siamo ancora molto male informati sui criterî estetici che guidavano i Babilonesi e Assiri nella composizione delle loro opere.

Tutta questa vastissima letteratura, conservata in un numero sterminato di tavole o su altra materia scrittoria, è scritta in caratteri cuneiformi. I monumenti della letteratura babilonese e assira finora noti sono innumerevoli e il loro numero si accresce ogni giorno per le sempre nuove scoperte che se ne fanno nelle rovine della Mesopotamia. Non si può parlare ancora di una vera storia della letteratura. Appena negli ultimi tempi, con la scoperta di antiche redazioni ed edizioni di testi religiosi e specialmente di miti e leggende, si poté cominciare a intravvedere un certo sviluppo dei generi letterari in Mesopotamia. Non c’è dubbio però che col tempo, quando gli scavi ci avranno dato un maggior numero di testi dello stesso scritto e conosceremo meglio i singoli scritti, affinando il nostro gusto per i prodotti di questa letteratura, noi potremo parlare della sua storia.

Già fin d’ora si può affermare che durante la prima dinastia di Babele (2057-1758) si ebbe il periodo d’oro della letteratura babilonese, e che al tempo di re Assurbanipal la letteratura assira era in fiore. Inoltre possiamo distinguere, attenendoci al criterio della lingua in cui sono scritti i suoi documenti, il periodo sumero e quello accado.

La letteratura dimostra in Mesopotamia spirito molto conservatore ed imitatore. Quasi tutti i generi letterarî furono creati dai Sumeri, dai quali li presero i Semiti, non senza dar loro maggiore sviluppo. In generale però si può affermare che gli Accadi non dimostrarono forte spirito innovatore ed inventore. Si contentarono, per la maggior parte, di tradurre dal sumero in accado e tutt’al più di combinare varie opere letterarie di provenienza diversa in un’opera più vasta, qualche volta male composta.

Lo spirito conservatore di questa letteratura si rivela nel fatto che essa subisce pochissimi cambiamenti durante due o persino tre millennî: sì tenace era la tradizione letteraria tra questo popolo di tradizionalisti per eccellenza.

Un’altra caratteristica della letteratura in esame è la sua anonimità. Pochissime opere soltanto, e queste tutte d’importanza affatto secondaria, portano il nome degli autori. Le migliori produzioni letterarie sono anonime, e nessuno ci ha conservato i nomi dei loro autori. Gli ultimi prodotti di questa letteratura risalgono a qualche anno avanti l’era volgare, i primi e più antichi non rivelano che molto approssimativamente la loro età: essi sono certamente antichissimi e risalgono forse al 4000 a. C. La maggior parte dei monumenti letterarî ci è stata conservata in iscrizioni fatte su tavolette di argilla cotta al forno o semplicemente asciugata al sole.

Oltre alle tavolette, dette duppāni, sing. duppu, abbiamo però anche lamine d’oro ed antimonio, diverse specie di pietre, inoltre vasi tanto di pietra quanto di metallo, stele di pietra, colonne, pietre di confine, armi, mazze, pesi, muri, pavimenti, statue di varia forma e grandezza, cilindri, coni, chiodi, ciottoli, monoliti, obelischi, rocce, sigilli e talismani di diverse pietre dure o argilla, tutti portanti iscrizioni più o meno lunghe in caratteri cuneiformi.

Le tavole di argilla di diverso colore hanno forme molto varie: alcune sono tavolette di varie dimensioni e forma, sia quadrate, sia bislunghe, piane o arcuate, altre hanno la forma di bariletti, prismi, cilindri forati nel senso longitudinale, altre arieggiano a lenticchie o olive o hanno forma di fegato, di unghie di bove. Abbiamo inoltre molti monumenti, lettere e documenti giuridici, consistenti in una tavoletta chiusa in una busta o in un astuccio pure di argilla e che si spezzava quando si voleva leggere il contenuto della tavoletta.

Gli scrivani (dupsharrē) solevano scrivere con uno stilo di legno o di metallo sull’argilla ancora molle. La punta dello stilo lasciava nell’argilla un’impronta che somiglia alla testa di un chiodo o ad un cuneo. Non si adoperavano segni di interpunzione e non si lasciava spazio tra una parola e l’altra. Qualche volta lo scriba divideva le singole sezioni di uno scritto mediante linee orizzontali o, dopo aver terminato di scrivere una sezione, numerava i singoli paragrafi oppure le linee di dieci in dieci. Se lo scritto era lungo e abbracciava più di una tavola, ciascuna portava un numero progressivo e tutte insieme formavano una serie.

Abbiamo opere letterarie che consistono in un grande numero di tavole, tutte numerate e provviste alla fine di un richiamo, che ci è di grande vantaggio quando vogliamo ricostituire la serie intera dello scritto.

Le tavole portano qualche volta sottoscrizioni, come quando lo scriba ci avverte che la tavola appartiene, p. es., alla biblioteca di Assurbanipal, oppure che il testo non è completo o che è stato copiato da un’altra tavola proveniente da una certa città o biblioteca. Inoltre la sottoscrizione può indicare il genere letterario cui appartiene lo scritto.

I Babilonesi dovevano, per propagare le opere letterarie, copiare gli scritti. Così si spiega che parecchi monumenti ci sono conservati in diverse redazioni o edizioni, che variano più o meno tra loro. I copiatori non si attenevano sempre strettamente all’originale, ma spesso ne cambiavano la scrittura, come quando uno scriba assiro copiava un testo babilonese e doveva trascriverlo in caratteri assiri, oppure alteravano il numero delle linee o modificavano qualche parola non più in uso ai tempi del copiatore.

Altre alterazioni sono dovute alla circostanza che i testi si dettavano ai copiatori e si collazionavano con testi diversi. In alcuni scritti troviamo glosse che spiegano qualche parola, in scrittura più piccola. Molti testi sono redatti in due lingue, in sumero e in accado. Di solito il testo accado non è altro che una versione più o meno letterale e più o meno esatta del testo sumero. Queste versioni sono interlineari. È certo però che i preti babilonesi compilarono inni e altre opere religiose in lingua sumera quando questa era già morta e non si parlava più in Mesopotamia, ma si studiava soltanto nelle scuole quale lingua sacra e del culto. Alcuni scritti sono stati tradotti dall’accado in sumero in età molto recente. Quando il copiatore non è in grado di decifrare un carattere, suol fare una nota che dice ul idī “non so”, e quando la tavola da cui copia è spezzata e mutila, egli scrive khipī “spezzato, rotto”. I templi maggiori, i tribunali e le autorità amministrative avevano proprî archivî in cui si custodivano i varî documenti di carattere religioso o amministrativo o giuridico. Presso i templi nei quali esistevano scuole di scrivani, si trovavano biblioteche di tutto lo scibile di allora, poiché i sacerdoti erano i membri più colti della comunità, coloro che sapevano leggere e scrivere e insegnavano questa difficile arte (posta sotto il patronato del dio scrivano Nabū, il quale funge da segretario nelle assemblee degli dei e tiene in mano lo stilo splendente) ad una schiera di scribi, addetti ai tribunali, ai pubblici uffici, alla corte, od esercitanti il proprio mestiere nelle pubbliche piazze o in lontani paesi, dove scrivevano la corrispondenza internazionale, da corte a corte, dei potentati stranieri.

L’epopea. – Le tavolette con epopee, o meglio soltanto frammenti di queste, risalgono per la maggior parte all’epoca di Assurbanipal, poiché appartengono alla biblioteca raccolta da questo re. Ma recentemente si sono trovate anche redazioni più antiche, anzi in qualche caso anche gli originali sumeri dai quali derivano. Anche nelle lettere di Tell el-‛Amārnah si è trovato qualche scritto d’argomento epico. La letteratura epica era già molto diffusa al tempo della prima dinastia di Babele.

Uno degli scritti epici più importanti era quello che dalle prime due parole della prima tavola è chiamato Enuma elish (Quando in alto). Esso tratta per la maggior parte di cosmogonia. Di questa epopea, che consiste di sette tavole o canti, abbiamo principalmente redazioni assire, fra le quali molto importante una trovata recentemente negli scavi di Ashshur, perché colma alcune lacune delle redazioni già conosciute, e neobabilonesi.

Lo scritto è redatto in versi ritmici. Nella prima tavola si descrive la nascita degli dei, quando non esisteva ancora il mondo come è ora, ma soltanto Apsū (l’abisso) e Tiāmat (il mostro primordiale) mescolavano in uno le loro acque; prima di Lakhmu e Lakhamu, poi di altri a coppie e infine di Anum, Bēl ed Ea. Ma Apsūe Tiāmat, irritati dal comportamento degli dei, decidono di distruggerli. Ea però apprende i propositi malvagi di Apsū e riesce ad imprigionarlo. Allora Tiāmat furente raccoglie attorno a sé mostri e demoni della prima generazione e li conduce in battaglia contro gli dei dopo aver nominato Qingu capo del suo esercito e avergli affidate le tavole del destino. Nella seconda tavola Ea apprende i propositi di Tiāmat e dei suoi seguaci e si reca da suo padre Anshar per lamentarsi della sorte che prepara loro il mostro femminile. Allora Anshar incarica anzitutto Anum di combattere Tiāmat, e quando egli ritorna senza esser riuscito, per paura, nel suo intento, si rivolge ad Ea. Ma anche questo dio deve ritornare senza aver fatto nulla. Ora entra in scena Marduk, l’eroe dell’epopea, del quale vengono descritte la nascita, la prodezza, la bellezza, tutte le preclare e altissime qualità.

L’eroe divino si offre di abbattere il mostro caotico, ma prima chiede una grande ricompensa: se egli ha da combattere Tiāmat gli dei devono prima cambiare l’ordine universale, devono riconoscerlo come capo degli dei e re: sarà lui che d’ora in poi stabilirà il destino. Nella terza tavola vediamo Anshar che manda il suo messaggero Gaga da Lakhmu e Lakhamu per deciderli a riconoscere Marduk, dopo che avrà sconfitto Tiāmat, quale loro padrone. Anche Lakhmu e Lakhamu si recano assieme agli altri dei alla grande assemblea che ha luogo nella sala celeste già piena dei grandi dei che reggono il mondo. Essi si baciano, tengono un banchetto e bevono finché sono ubriachi. In questo stato trasferiscono il supremo comando a Marduk. La quarta tavola comincia con la descrizione dell’atto d’omaggio che gli dei fanno a Marduk. Lo si conduce nella stanza del trono dove prende posto davanti agli dei. Tutti lo lodano e gli trasferiscono il regno sopra l’universo: “Marduk tu sei il nostro vendicatore, ti diamo il regno sopra l’universo”. Marduk per dimostrare il suo grande potere fa un miracolo. Egli fa sparire un abito e lo fa ricomparire. Tutti gli dei ne gioiscono immensamente e gridano: “Marduk è re”. Gli conferiscono i segni esteriori del regno, lo scettro, il trono e il palū, nonché l’arma che abbatte i nemici. A questo punto l’epopea dà una minuta e poetica descrizione dell’equipaggiamento del dio, di tutte le sue molte e svariate armi, dei sette venti da lui creati per esserne assistito nella lotta imminente. Marduk monta sul carro di guerra, impugna la tremenda arma abūbu e si slancia contro Tiāmat. In una drammatica descrizione della lotta tra i due poteri, della tenebra e della luce, del disordine bestiale e dell’ordine dello spirito, l’anonimo autore sa elevarsi ad altezze veramente epiche. Tiāmat accoglie il suo baldo avversario con male parole, ma Marduk rinfaccia alla femmina mostruosa la sua ribellione e la sfida a battaglia. Il mostro diventa quasi pazzo di furore, trema, dice un incantesimo e si getta nella tenzone. Il suo avversario riesce ad invilupparlo nella sua rete, gli lancia contro uno dei sette venti che gli penetra nella gola, gli conficca la lancia nel corpo squamoso e l’uccide: Tiāmat è debellata. Ucciso l’avversario principale, il dio prende e getta in catene i suoi accoliti, tra questi principale Qingu, cui strappa le tavole del destino, che pone sul proprio petto, dopo averle munite del proprio sigillo. Superbo per il suo trionfo, il vincitore monta sul corpo immane di Tiāmat e lo spacca in due parti: di una egli fa il tetto del cielo, al quale pone custodi che non ne lascino uscire le acque. Poi costruisce Esharra quale firmamento celeste. I grandi dei Anum, Bēl ed Ea prendono posto nelle loro abitazioni. La quinta tavola descrive la creazione delle stelle e delle costellazioni, mediante le quali si conta l’anno. Ai due lati del cielo Marduk aprì due porte. Poi fece la luna quale reggemte della notte e ne fissò le varie fasi. E così il dio crea e ordina tutto l’universo, la terra con le sue piante, i suoi monti, e fiumi. Gli dei si compiacciono dell’attività creatrice del loro re, si congratulano con lui e lo eccitano a creare un essere che sia il loro servo e li onori con sacrifici e preghiere. La sesta tavola comincia appunto col discorso che Marduk tiene ad Ea, nel quale egli gli comunica il suo proposito di creare l’uomo: egli vuol raccogliere sangue, formare ossa e creare l’uomo, affinché serva gli dei e abiti sulla terra. Marduk è lodato molto dagli dei raccolti nella stanza del destino per la sua creazione dell’uomo. La settima tavola non è altro che l’inno che gli dei elevano a Marduk, ai suoi cinquanta nomi che descrivono le sue qualità divine. Ea, padre del dio, sente con grande compiacimento le lodi degli dei e con parole alte dà espressione alla sua gioia: “Che il suo nome sia Ea, come il mio”, dice il dio dell’acqua, “che i suoi cinquanta nomi siano conservati fedelmente dagli uomini, che tutti ne parlino, che lo scienziato li mediti, che tutti gioiscano di Marduk, che il suo comando non sia cambiato, che nessun dio possa cambiare la sua parola”.

L’Enuma elish fu probabilmente composto durante il regno della prima dinastia di Babele; la redazione che ora ne abbiamo risale però appena al periodo neoassiro e ha carattere anche politico, poiché vuole giustificare e legittimare il predominio del dio della città di Babele sopra tutte le altre città della Babilonia e sopra i loro dei. È probabile che in origine esistesse un originale sumero del poema, senza il settimo libro però, il quale è evidentemente un’aggiunta posteriore. Esso è probabilmente da riguardare come una creazione ritualistica fondata su di un antico mito sumero, il quale sarà stato un mito del dio della guerra Nimurta. Questo mito deve aver dato ai sacerdoti semitici lo spunto per il loro poema sul combattimento tra Marduk, il quale nelle redazioni assire è sostituito dal dio nazionale assiro Assur, e Tiāmat. Tutto il mito sarà forse un mito solare e riproduce la lotta tra il sole primaverile e i demoni invernali. Accanto a questa redazione dell’epopea della creazione devono esserne esistite ancora altre, poiché anche Beroso e Damascio ci narrano la cosmogonia babilonese con parole che differiscono da quanto dice l’Enuma elish e inoltre abbiamo ancora una leggenda eridiana della creazione e altri piccoli frammenti sulla creazione, i quali ci autorizzano ad affermare che esistevano altre epopee sulla cosmogonia, di contenuto diverso.

I Babilonesi diedero forma poetica anche ad altri miti che stanno in nesso con quello di Marduk, come sarebbero la leggenda della luna primaverile, quella della lotta tra Bēl e il labbu, il mito di Zū e della rapina delle tavole del destino. Ma in tutta la non piccola produzione epica dei Babilonesi e Assiri soltanto un altro poema può rivaleggiare per la mole, la forma poetica, la celebrità e diffusione, e il contenuto filosofico e profondamente umano con l’Enuma elish: l’epopea di Gilgamesh, l’Odissea babilonese. La stragrande maggioranza delle tavole di questo poema proviene dalla biblioteca di Assurbanipal, ma negli ultimi anni si sono scoperte anche redazioni paleobabilonesi, dalle quali possiamo indurre che l’epopea è molto antica. Essa consiste di dodici tavole o canti e così imita forse la divisione dello zodiaco, poiché si è voluto vedere in Gilgamesh una figura solare e nel suo viaggio il passaggio del sole per le dodici costellazioni. È più probabile però che il fondo del poema si basi su fatti storici e che l’eroe sia stato effettivamente un antico preistorico re di Uruk. S’è voluto vedere in Enkidu, il compagno fedele del nostro eroe, un suo doppione, come se l’autore sconosciuto avesse fuso in uno due poemi, uno che trattava delle imprese di Gilgamesh e l’altro che aveva per figura centrale Enkidu. È certo comunque che il poema ha, nella redazione che conosciamo, carattere composito, poiché la tavola XI, che tratta del diluvio, è stata inserita più tardi nel poema e deve aver avuto in origine esistenza separata, come si può dedurre da alcune altre redazioni del mito del diluvio. Questo poema godette grande rinomanza non soltanto in Babilonia e Assiria, ma varcò anche i confini di questi paesi e penetrò presso altri popoli: in Asia Minore se ne fecero versioni nelle lingue indigene. Parecchi suoi tratti ritornano nelle epopee di altri popoli dell’antichità; alcuni di essi si sono certamente aggiunti al nucleo storico della vita avventurosa di Alessandro il Grande e hanno contribuito a creare la leggenda di Alessandro (v.). Difficilmente si potrà però ammettere, con alcuni studiosi, che ne abbiano risentito l’influenza anche le figure dei patriarchi dell’Antico Testamento: i rapporti sono troppo tenui. L’epopea di Gilgamesh ha passi di carattere altamente poetico ed epico e si basa su di una concezione della vita stranamente moderna. Essa è certamente una delle più grandi creazioni poetiche dello spirito dell’antico Oriente, ma finora non è stata apprezzata secondo il suo valore per le grandi difficoltà d’interpretazione che non pochi suoi passi presentano. È scritto in versi ritmici. La prima tavola comincia con una sommaria descrizione dell’eroe la quale serve d’introduzione: Gilgamesh è colui che tutto intravide, cui anche i misteri erano manifesti, il grande viaggiatore che portò notizia di lontani paesi, il fabbricatore delle mura di Uruk e del tempio Eanna di Istar in questa città. Egli fu re della città di Uruk, che reggeva da tiranno spietato, specialmente per compiere l’opera di costruzione delle mura. Il popolo si lamenta acerbamente e fa penetrare l’eco delle sue sofferenze fino al cielo. Per umiliare il tiranno, Aruru creerà un essere che sarà un’imagine di Gilgamesh e potrà lottare con lui e dirigere la sua esuberante attività in un’altra direzione. Così fa la dea: essa crea nel suo cuore un’imagine del dio Anum e con l’argilla forma Enkidu. Questi è una specie di satiro, è tutto coperto di pelo, vive con gli animali e si nutre di erbe. Abita nei boschi e mena vita libera e randagia, lontano dagli uomini e dalle loro città. Un giorno distrugge le trappole tese da un cacciatore il quale per consiglio di Gilgamesh conduce da Enkidu nel bosco una prostituta per sedurlo e indurlo a venire ad Uruk. Il poema descrive le arti di seduzione messe in opera dalla ragazza e i discorsi che essa tiene ad Enkidu. Questi ben presto dimentica tutto, attratto dalla bellezza della ragazza, e le si abbandona per sei giorni e sei notti. Davanti all’uomo completamente cambiato gli animali che erano stati i suoi compagni fuggono e lo abbandonano. La ragazza lo eccita ad abbandonare la vita del campo e a venire nella città. Egli stesso infine prega la ragazza di condurlo a Uruk. Là comincia ad abituarsi alla vita civile, mangia pane e beve latte come gli altri uomini e comincia a menare vita regolare. Ma Gilgamesh è stato avvertito già da due sogni, la cui spiegazione egli chiede a sua madre, dell’imminente comparsa di colui che dovrà diventare suo amico. Nella seconda tavola Enkidu sente grande nostalgia per la libertà dei campi, per la vita del bosco e per i suoi animali. Ma il dio Samas gli ricorda in sogno che diventerà l’amico di Gilgamesh, che mangerà cibo regale, che siederà al lato del re. Enkidu si acquieta a questo pensiero, ma un altro sogno gli incute spavento, poiché gli fa vedere la sua fine non molto lontana. Intanto egli è diventato, dopo aver lottato con Gilgamesh, il suo migliore amico, e tutt’e due decidono il loro primo atto eroico, l’uccisione di Khumbaba, che abita nella montagna, in una selva dove custodisce il bosco sacro dei cedri. Nella terza tavola si descrivono i preparativi per la grande impresa. Gli anziani di Uruk e anche Enkidu cercano di distogliere Gilgamesh dall’impresa pericolosa, ma egli da vero eroe risponde che è risoluto di andare a tutti i costi. I due amici allora si recano dalla madre del re, la quale è una sacerdotessa del dio Sole, perché invochi il suo aiuto e il buon esito dell’impresa. Essa prega ed invoca il dio, fa sacrifici, assistita da altre sacerdotesse. Nella quarta tavola continuano i preparativi per l’impresa, si descrivono le armi, nonché un altro tentativo degli anziani di Uruk per trattenere il loro re dal mettere in pericolo la propria vita. Il poeta descrive a questo punto la figura del mostro Khumbaba, che con la sua tremenda voce incute a tutti grande spavento. Infine i due eroi si mettono in moto e raggiungono il monte che è la dimora di Khumbaba e là si fermano. Nella quinta tavola i due amici ammirano i bei cedri della montagna, ma alcuni sogni avuti da Enkidu lasciano i due perplessi. Infine si viene alla lotta col mostro, il quale è ucciso dagli eroi. Nella sesta tavola Gilgamesh, dopo aver ucciso Khumbaba, pulisce le armi, indossa abiti splendidi e si pone in capo la corona regale. La bellezza dell’eroe dopo il trionfo attira gli sguardi della dea Istar, la quale se ne innamora e lo desidera per amante. Ma il re respinge sdegnosamente gl’inviti lusinghieri della dea ed anzi le rimprovera la sua incostanza e lascivia e il crudo destino che essa ha preparato ai suoi molti amanti, tra i quali furono anche animali. La dea, furente quando sente queste parole audaci ed offensive, si lamenta con suo padre Anum e gli chiede la punizione dell’eroe. Anum crea un toro celeste che abbatterà Gilgamesh, ma Lnkidu lo afferra e lo sbrana, anzi getta la sua coscia contro la dea quando questa appare sulle mura di Uruk e lancia atroci offese contro il re. I due eroi si lavano le mani nell’Eufrate ed entrano nella città. Tutta la città è in festa, si cantano inni ai due vincitori e specialmente a Gilgamesh. Durante la notte Enkidu ha un sogno. Nella settima tavola i due amici intraprendono ancora altre imprese eroiche. Ma Enkidu si ammala ed è destinato a morire di morte del tutto ingloriosa, ciò che lo riempie di grande tristezza. E infatti egli muore. Nell’ottava tavola Gilgamesh scioglie un poetico e sentito lamento funebre per la morte del suo fido amico. È questo uno dei più bei passi di tutto il poema, pieno di semplice e profonda tenerezza; egli invoca l’amico scomparso, il suo fratellino, gli ricorda le molte imprese condotte insieme a buon fine, e si meraviglia che non si svegli dal sonno che lo ha preso. Gilgamesh copre il suo amico come una sposa e pensa al fato che attende lui stesso. Tavola nona: l’eroe si lamenta del proprio destino, identico a quello di Enkidu e, per sapere come si possa acquistare l’immortalità, decide di andare ad interrogare il suo antenato Utnapishtim, che gli dei dopo il diluvio resero immortale. Egli compie un lungo viaggio che lo fa errare per paesi stranieri, abitati da leoni e uomini-scorpioni, e arriva infine in un magnifico giardino situato sulla sponda del mare. Nella decima tavola si racconta come l’eroe trovi nel mezzo del giardino la dea Siduri, che sta seduta su di un trono. Questa gli chiede, quando vede il suo strano aspetto, dove vada in quell’arnese. L’eroe le racconta lo scopo del suo viaggio e le chiede informazioni sulla via da prendere. La dea gli fa vedere la grande difficoltà del passaggio del mare, il quale finora non è stato traghettato che da Samas, essendo esso il mare della morte. Essa gli consiglia di rivolgersi al battelliere di Utnapishtim, in cui compagnia potrà forse passare felicemente il mare, non mai ancora superato da nessun mortale. Gilgamesh prosegue il viaggio, arriva alla sponda del mare della morte, vi trova il battelliere di Utnapishtim, gli dice lo scopo della sua venuta e col suo aiuto traghetta all’isola, nella quale abita l’eroe del diluvio. Utnapishtim fa alcune domande a Gilgamesh e, richiesto da questo sul modo come ha ottenuto dagli dei l’immortalità, si appresta a raccontargli la storia del diluvio. La maggior parte dell’undicesima tavola è dedicata a questo racconto (v. oltre: il § Religione). Poi il poema prosegue narrando come Utnapishtim fa dormire l’eroe profondamente e infine lo affida al suo battelliere per farlo ritornare nel suo paese. Gilgamesh si lava, indossa abiti nuovi, e tutti e due montano nella barca, la quale si mette in moto subito dopo che Utnapishtim ha indicato all’eroe un’erba miracolosa che cresce in fondo al mare e dà ai vecchi nuova vita e vigore giovanile. Gilgamesh si cala al fondo del mare e trova l’erba meravigliosa. Continua il viaggio di ritorno, durante il quale l’eroe liba e fa sacrifici ai morti. Ma un giorno, mentre Gilgamesh, sceso a terra, stava lavandosi, un serpente gl’invola l’erba e sparisce. L’eroe dà in grandi lamenti, ma deve proseguire e ritoma ad Uruk. Tavola dodicesima: l’eroe vuol comunicare con l’amico decesso e chiede informazioni sulla discesa all’inferno. Egli si rivolge a Enlil e Sin per poter parlare con Enkidu, ma questi dei non gli dànno nessuna risposta. Ea infine comanda a Nergal di aprire un foro nella terra perché lo spirito di Enkidu possa uscire dall’ade. In tal modo i due eroi possono parlare, ma Enkidu non dà al suo amico buone notizie: non è possibile sottrarsi alla morte. Così, mestamente e con pessimismo, finisce l’epopea. Essa è l’epopea di due amici fedeli, dei Dioscuri, che soltanto la morte può dividere, la morte che gli dei hanno dato agli uomini quale ineluttabile destino.

Forma parimente poetica hanno anche altri racconti d’argomento mitologico. Annovereremo i testi di Ea Atarkhasis, l’importante mito della discesa di Istar all’inferno, dal quale rileviamo quali erano le idee dei Babilonesi sulla vita dell’al di là e sull’inferno, il mito di Nergal e Ereshkigal, e poi quello di Era, quello di Adapa ed alcuni miti che trattano di Nimurta. Esistono ancora miti che trattano in forma poetica di Enki e Ninella, i quali sembrano arieggiare le leggende ebraiche del paradiso e della caduta dell’uomo. Tutte queste scritture hanno nei versi un certo ritmo che si percepisce facilmente, ma del quale non si possono fissare le regole. Inoltre tutte fanno uso di quei mezzi che in Oriente distinguono il linguaggio poetico o artificiale da quello prosastico; le allitterazioni, il parallelismus membrorum, l’accoppiamento di parole, l’inversione e opposizione delle stesse e persino la rima ricorrono spesso nella letteratura dei Babilonesi e Assiri.

Le migliori produzioni di questa, accanto alle epopee e ai poemi, sono gli inni agli dei. Questi sono pure in versi, i quali qualche volta formano strofe di varia grandezza. Non pochi sono altamente poetici e pieni di sentimento religioso. La lingua è il sumero o l’accado, ma la maggior parte delle composizioni risale senza dubbio a originali sumeri. Alcuni inni sono piuttosto lunghi: un famoso inno a Samas, che è forse la più bella opera della lirica religiosa dei Babilonesi, consiste di ben 420 righe. Una categoria speciale nella letteratura occupano i cosiddetti salmi penitenziali, che sono la confessione dei peccati da parte del peccatore contrito e la descrizione dello stato miserevole nel quale egli si trova in conseguenza dell’ira del dio scatenatasi contro di lui. Specialmente le descrizioni della miseria del peccatore dimostrano grande effĭcacia poetica. I salmi penitenziali andavano recitati dal fedele nel tempio davanti la statua del dio ed erano accompagnati dalla confessione dei suoi peccati. I testi delle tavolette che possediamo sono da riguardare come formularî o modelli. Ma la stragrande maggioranza dei testi religiosi è costituita da incantesimi e da oracoli. Gl’incantesimi sogliono consistere di tre parti. Nella prima si dà una sommaria descrizione del demone o del male che tormenta l’uomo, per il quale si ha da recitare lo scongiuro. Nella seconda si dànno indicazioni su ciò che ha da fare lo scongiuratore, sui mezzi che ha da apprestare e nella terza si cita la formula o le parole da recitare. Spesso la descrizione del male è riferita in una specie di dialogo tra Marduk, il quale non sa quale scongiuro adoperare per venire in aiuto dell’uomo ammalato o stregato, e suo padre Ea, il dio degli scongiuri per eccellenza. Gli scongiuri sono in prosa. La lingua è tanto il sumero quanto l’accado. Simile agli scongiuri veri e proprî è una serie di preghiere che i testi chiamano di alzata della mano (shúila). Consistono di una breve introduzione col nome e una lode della divinità invocata, poi viene la preghiera vera e propria del fedele ed infine abbiamo una dossologia. Sono preghiere dette in occasione di qualche disgrazia o di qualche cattivo segno osservato dall’uomo. In origine queste preghiere saranno state compilate senza lo scongiuro. Tra gli scongiuri occupa un posto speciale la serie detta Maqlū “arsione”, dal fatto che gli oggetti che ricorrono in questi incantesimi e che sogliono esser l’immagine o il simbolo della persona contro cui sono diretti vanno gettati nel fuoco e arsi. Sono diretti contro i sortilegi delle incantatrici e degli stregoni e sono scritti, nella redazione a noi pervenuta e che appartiene alla biblioteca di Assurbanipal, in assiro, quantunque risalgano ad originali sumeri. La serie consiste di otto tavole. Simile, per quanto riguarda il contenuto, è la serie Shurpu, significante “arsione”, la quale è costituita di nove tavole. Qualche scongiuro è scritto in versi. La lingua è l’accado, ma in alcuni riscontriamo anche una versione sumera. In questi scongiuri ricorrono lunghe liste di peccati, poiché lo scongiuratore deve sapere quale peccato ha commesso l’ammalato o colpito dall’ira divina, per poter dare efficacia al proprio incantesimo. Una raccolta di scongiuri contro il demone femminile Lamashtu è la serie dei testi e incantesimi pubblicati dal Myhrman. In tutto, questa scrittura contiene circa 400 versi con tredici formule d’incantesimo. Negli scongiuri si descrive il demone e si indicano i mezzi per scongiurarlo efficacemente. Una grande serie d’incantesimi è quella che reca il titolo Utukki limnūti “demoni cattivi”, con più di sedici tavole. Essa è redatta tanto in sumero, quanto in accado. Nei singoli scongiuri si dànno anzitutto descrizioni della attività dei demoni, si descrive il loro esteriore e tutto ciò che fanno, poi è lo scongiuratore stesso che parla richiamandosi spesso ad Ea. Infine parla l’ammalato o stregato e prega il dio di liberarlo dal male e di essergli di nuovo grazioso. Un’altra serie è chiamata Ashakki marṣūti “le febbri”, e consisteva originariamente di almeno dodici tavole. Sono scongiuri contro il demone della febbre. Un’altra serie è diretta contro il demone del mal di capo ed è detta perciò ū. Essa constava in origine di undici tavole. Oltre a queste abbiamo ancora altre tre serie di scongiuri di minore importanza. Le preghiere agli dei erano un genere letterario molto in uso in Babilonia. Ne abbiamo esempî già nelle antiche iscrizioni sumere, ma non mancano preghiere neppure del periodo neoassiro. Generalmente esse sono in versi e pervase da alto sentimento religioso. La più bella preghiera babilonese è certamente quella diretta al dio Sin di Ur: essa è metrica il parallelismus membrorum è osservato rigorosamente ed è divisa in strofe di otto versi. Come la maggior parte dei prodotti di questa forma di letteratura religiosa essa non è una preghiera pura, ma ha parecchi tratti che la fanno rassomigliare ad un inno. I Babilonesi non avevano gli stessi generi letterarî che abbiamo noi e perciò i termini di inno, preghiera, scongiuro o salmo che sogliamo adoperare sono del tutto inadeguati per qualificare le scritture religiose dei Babilonesi.

Alla letteratura religiosa appartengono anche gli oracoli, dei quali ci sono state conservate tanto le domande quanto le risposte. Nella domanda il re si rivolge a qualche dio, a mo’ d’esempio a Istar di Arbela, e gli chiede in maniera molto particolareggiata, per non lasciarsi sfuggire nessuna circostanza, se ha da intraprendere o meno qualche impresa militare, se i nemici riusciranno a penetrare nel suo paese oppure a prendere una città, oppure se ha da nominare un certo funzionario o meno. Gli oracoli che ci sono stati conservati risalgono ai re Assarhaddon e Assurbanipal. I testi consistono di cinque parti: una preghiera d’introduzione, la domanda, alcune preghiere, di solito sette, una ripetizione della domanda, una preghiera finale. Durante le cerimonie che il bārū (divinatore) eseguiva per eruire la volontà degli dei e ciò che accadrà, questo sacerdote recitava alcune preghiere dette ikribu, dirette a Samas e Adad, le quali contenevano un’invocazione dei due dei, un’enumerazione degli oggetti del sacrificio, un invito agli dei di accettarlo benignamente e la preghiera di rispondere veritieramente alla domanda mantica. Queste preghiere erano accompagnate da alcune cerimonie rituali. Ci sono state conservate anche le risposte alle domande, fatte al dio, di ottenere un oracolo. Queste si riferiscono chiaramente ad un dato avvenimento e sono precise o sono molto vaghe. Consistono di solito nell’indicazione della divinità da cui provengono, in quella della persona cui sono dirette e nella risposta. Dei testi rituali, che devono aver formato buona parte della letteratura religiosa, si sono scoperti recentemente importanti frammenti ed anche tavole intiere. Si hanno molte tavole che riguardano il rituale del sacerdote bārū (divinatore), quello dell’āshipu (esorcizzatore) e quello del kalū (cantore). Nel primo rituale si fissano le regole che disciplinano l’entrata del bārū nella corporazione dei sacerdoti e il ritnale da osservare durante gli atti mantici dell’epatoscopia e lecanomanzia con l’olio. Le indicazioni dei rituali sono qu̇alche volta magre. Abbiamo però certi tipi che si diffondono nella descrizione particolareggiata delle singole cerimonie e dànno anche il testo completo degl’inni e delle preghiere da recitare durante le cerimonie. Per quanto concerne il rituale del cantore abbiamo rituali sulle cerimonie della copertura del timpano sacro con la pelle del toro, su quella dell’introduzione di una statua del dio nel tempio e sulla sua consacrazione e sulla riedificazione d’un tempio. Inoltre abbiamo testi lunghi sulla festa dell’anno nuovo a Babele, sulle feste che si celebravano nel tempio Eanna a Uruk e sui sacrifici regolari che vi si facevano ogni giorno. La letteratura ritualistica deve essere stata molto vasta, quasi un grande codice che abbracciava tutta l’attività dei numerosi sacerdoti. I rituali sono in prosa e per la maggior parte sono redatti in accado. Ma anch’essi risalgono senza dubbio ad originali sumeri.

La letteratura augurale, concernente la divinazione, costituisce quasi più della metà dei testi babilonesi e assiri conservati nella biblioteca di Assurbanipal. Da questo si può vedere quanta importanza essa avesse per i popoli della Mesopotamia. I testi mantici sono molto semplici: sono divisi nelle singole predizioni, che consistono in una proposizione principiante con shumma “se”, che indica sommariamente l’evento dall’avverarsi del quale si può dedurre l’avverarsi futuro del fatto che è descritto nella seconda parte. Molti di questi testi sono distribuiti in serie; nella forma esteriore sono assai somiglianti alle leggi. Alcuni testi dell’epatoscopia, che cercava d’indovinare il futuro da certi segni manifestantisi in certe parti del fegato delle pecore, sono scritti negli scompartimenti in cui sono divisi i modelli di argilla dei fegati stessi, che i Babilonesi adoperavano nelle scuole sacerdotali per meglio localizzare i segni più significativi. Alcuni testi mantici sono attribuiti a Sargon di Agade. I più antichi riguardanti la lecanomanzia risalgono al tempo di Hammurabi.

I popoli della Mesopotamia non conoscevano la storiografia nel vero senso della parola. Nei tempi sumeri gli unici scritti storici erano rappresentati dalle iscrizioni monumentali dei re e dei governatori e patesi, i quali preferivano però parlare delle costruzioni dei templi, degli abbellimenti di essi, delle dedicazioni di statue divine, piuttosto che delle guerre e conquiste. Il governatore di Lagash Gudea ci ha lasciato alcune sue iscrizioni molto importanti, scritte probabilmente in prosa ritmica se non in versi, d’uno stile elevato, nelle quali egli descrive a lungo e particolareggiatamente anzitutto i preparativi per la costruzione del tempio Eninnū per Ningirsu, i sogni che ebbe da parte del dio, la loro interpretazione e le grandi feste per l’inaugurazione del tempio. Queste iscrizioni di sapore schiettamente letterario sono scritte in sumero e sono certamente superiori per la venustà della forma alle iscrizioni storiche dei re assiri, le quali però, quantunque secche e spoglie di valore letterario, ci dànno molti dati storici che cercheremmo invano in altri documenti. Altre iscrizioni tanto paleobabilonesi quanto anche più recenti sono però molto più parche e non contengono che il nome del re, di suo padre e del paese sopra il quale regnò. Le iscrizioni ufficiali assire dànno le descrizioni anzitutto delle imprese guerresche dei re, distribuendole di solito in campagne secondo i singoli anni. Qualche volta però una singola tavola o meglio un singolo prisma (poiché gli Assiri amavano far scrivere le relazioni ufficiali delle imprese di guerra su cilindri o prismi sfaccettati) contiene la descrizione di una sola campagna o guerra. Lo stile di queste iscrizioni è, tranne per quanto riguarda le lodi tributate al re, molto sobrio. Non sempre si può fidarsi delle loro indicazioni, poiché anche in Assiria come presso tutti gli altri popoli era forte la tendenza a esagerare le proprie vittorie e a rimpicciolire le proprie sconfitte. Questo si può constatare specie nel caso del numero dei prigionieri: la relazione originaria ne dà un numero inferiore, mentre quelle posteriori ne accrescono sempre il numero. Ma lo scopo delle iscrizioni ufficiali non era quello di tramandare ai posteri una relazione esatta degli avvenimenti, ma soltanto di estollere il potere e la gloria del re. Questo genere letterario manca di qualunque nota personale e specialmente ai tempi dei Sargonidi segue sempre la stessa falsariga. Soltanto nelle iscrizioni di Assurbanipal si può osservare una certa tendenza allo stile letterario: il racconto è interrotto da citazioni, si accenna ai sogni avuti, si adducono le preghiere fatte dal re e gli oracoli ottenuti. Accanto alle iscrizioni belliche abbiamo i fasti, nei quali le narrazioni delle campagne sono fatte soltanto ad maiorem gloriam del re e quindi seguono un criterio di distribuzione piuttosto geografico che storico. Nelle iscrizioni architettoniche i re narrano la loro attività costruttrice di templi e palazzi. Lo schema di tutte queste iscrizioni è di solito tripartito: 1° l’esaltazione del re (preceduta da quella del dio) consistente in un grande numero di titoli onorifici; 2° la narrazione degli avvenimenti guerreschi o delle costruzioni; 3° una maledizione contro colui che osasse distruggere il monumento e l’iscrizione, e qualche volta anche la data.

Si avvicinano alla storiografia altri testi che non hanno carattere ufficiale ma che nullameno sono molto preziosi per lo storico dell’antica Mesopotamia. La cosiddetta storia sincronistica registra, facendo anche menzione dei più importanti avvenimenti bellici, i trattati conclusi tra la Babilonia e l’Assiria da Karaindash di Babele fino a Marduk-balaṭsu-iqbi. Non si tratta di una vera cronaca, ma del preambolo di un trattato di pace, che enumera i trattati simili precedenti. Nelle cronache vere e proprie i compilatori si sono limitati a registrare il nome dei re, la loro genalogia, gli anni di regno, la morte e il luogo di sepoltura, e qualche volta le indicazioni sono anche più scarne. Inoltre abbiamo liste di re e di dinastie, che sono di grande valore per la ricostituzione della cronologia della storia della Mesopotamia. Però questi testi non sono sempre superiori a ogni critica, perché ci dànno liste di re anche anteriori al diluvio. Recentemente si sono scoperte simili liste anche per i tempi più antichi della storia sumera. Del periodo assiro ci sono state conservate liste dei funzionarî eponimi. Queste contengono anche notizie storiche. I documenti giuridici che finora si sono ricuperati dalle rovine delle antiche città della Mesopotamia sono numerosissimi. Essi concernono ogni specie di negozî giuridici e sono tutti redatti secondo certi formularî, i quali variano però da epoca ad epoca e anche da città a città. Essi riguardano tanto gli affari pubblici, come atti amministrativi e trattati internazionali, quanto gli affari dei privati cittadini. Nei numerosi documenti economici si rispecchia fedelmente la vita economica e finanziaria del paese. Nessuno di questi documenti, per quanto preziosi possano essere per colui che studia il diritto o la costituzione economica del paese, può vantare stile letterario. Non possono farlo neppure le leggi, delle quali abbiamo conservate alcune in sumero e parecchie altre in paleobabilonese, neobabilonese e medioassiro. La loro forma è molto semplice: come quasi tutte le leggi degli altri popoli dell’Oriente antico esse consistono in una proposizione condizionale, introdotta da shumma “se”, la quale nella seconda sua parte indica le conseguenze giuridiche dell’atto menzionato nella prima parte.

Le lettere scritte dai Babilonesi e Assiri erano o lettere private o pubbliche spedite al re da qualche suo funzionario o da qualche principe o re straniero. Le lettere seguono un certo schema composto di alcune parole dirette alla lettera stessa – un invito di parlare al destinatario: “a N.N. parla così” – di un saluto e di augurî, della comunicazione e di un commiato. Celebri tra le lettere spedite dal re sono quelle del re Hammurabi, scritte specialmente a Sinidinnam. Vivida luce sulla corrispondenza internazionale tra i potentati dell’Oriente classico gettano le famose lettere di Tell el ‛Amāmah, scambiate tra i faraoni d’Egitto e i re di Babele, Assiria, Mitanni e i piccoli principi della Siria. Molte lettere assire si sono trovate nella biblioteca di Assurbanipal.

La letteratura dei Babilonesi e Assiri deve esser stata ricca anche di testi scientifici, poiché abbiamo ricuperato gran numero di testi filologici, quali sarebbero i diversi sillabarî e vocabolarî, i testi scolastici e grammaticali, i testi paleografici, le liste di parole. Abbiamo inoltre testi astronomici, botanici, di zoologia, geografia, matematica, geometria, medicina, chimica. Ci è stata conservata anche qualche favola. Infine conosciamo alcuni proverbî e qualche testo di carattere etico.

Soltanto un genere letterario i popoli della Mesopotamia non sembrano aver conosciuto: il dramma, quantunque certi rituali di feste e forse di veri misteri religiosi assiri e babilonesi arieggino di molto alla composizione drammatica.

di GIUSPPE FURLANI, * – Enciclopedia Italiana (1930)

https://www.treccani.it/enciclopedia/babilonia-e-assiria_%28Enciclopedia-Italiana%29/



Categorie:B04- [BABILONIA], B04.02.01- Filologia e cultura accadica, B05.01- Filologia e cultura assira

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