Antonio De Lisa- Simbolismo, futurismo e serialismo nelle avanguardie musicali russe e sovietiche del Novecento 

Gli anni fra il 1894 (insediamento dello zar Nicola II) e la Rivoluzione (1917) costituiscono per la Russia un ventennio denso di avvenimenti, di crisi ma anche di un profondo rivolgimento culturale, oltre che politico. Fino a ridosso di quegli anni troviamo ancora, per esempio nel 1890, la nascita a Pietroburgo di due lavori come Pikovaia Dama (La dama di picche) di  Čajkovskij e il postumo Knjaz Igor (Il principe Igor) di Borodin. Via via che si avvicinano però alla fine del secolo gli intellettuali russi vanno facendo propri e rileggono in chiave autoctona spunti e suggestioni più avanzati che provengono dall’Europa occidentale, in particolare il Simbolismo, riletto in chiave misticheggiante da Solov’ëv e Fëdorov, il più consono rispetto alla tradizione religiosa russa. In chiave musicale un riflesso lo troviamo in diversi compositori.

Il simbolismo artistico russo

La critica letteraria si trova combattuta nello stabilire con esattezza l’anno in cui ha avuto origine il Simbolismo in Russia. La tradizione stabilisce che il Simbolismo russo si sia sviluppato a partire dal mese di marzo del 1894, in coincidenza con la pubblicazione a Mosca del primo fascicolo intitolato I simbolisti russi. D’altro canto alcuni ritengono che il simbolismo abbia avuto origine a Pietroburgo nel 1892 grazie ad una conferenza tenuta da Merežkovskij intitolata Sulle cause della decadenza e sulle nuove tendenze della letteratura russa contemporanea. Ad ogni modo non c’è alcun dubbio sull’importanza rivestita dal simbolismo negli anni precedenti i grandi sconvolgimenti dell’organizzazione politica e culturale della Russia. In poco tempo il Simbolismo si impose come principale scuola artistica del XX secolo russo e raggruppava personalità di spicco con aspirazioni molto diverse fra loro, ma accomunati da un’avversione per il positivismo trionfante del secolo precedente. Attraverso questa nuova scuola si affermarono i concetti dell’estetismo, del misticismo, del demonismo, dell’immancabile individualismo esasperato… tutti gli -ismo improntati sugli schemi provenienti dalla Francia e soprattutto dalla Germania. 

Alexsandr Skrjabin

Per comprendere a fondo il quadro in cui si situano le esperienze della “Scuola russa”, delle avanguardie russo-sovietiche del primo Novecento, è assolutamente necessario studiare a fondo un personaggio chiave. Alexsandr Skrjabin (1872-1915) è una figura alquanto singolare ma forse sarebbe di qualche profitto affrontare con maggiore attenzione il suo tentativo di raggiungere i confini del sistema tonale tradizionale spingendo a fondo l’estensione cromatica fino a coinvolgere tutti i dodici suoni. Gli stimoli che aveva ricevuto nel suo periodo di studio a cavallo tra i due secoli

“lo condussero ad iniziare una nuova stagione della sua arte musicale, che da un’assunzione di modelli chopiniani, schumanniani, lisztiani, wagneriani, debussyani ed altri ancora, lo condusse all’approdo di uno stile personalissimo proiettato verso esiti novecenteschi d’avanguardia. Stimoli non solo musicali e linguistici, ma anche e specialmente filosofici (Fichte, Nietzsche oltre ai simbolisti ed ai teosofi russi), con cui Skrjabin elaborò una sua poetica personale basata su uno straordinario potenziamento delle componenti sensuali ed irrazionali della creazione artistica – una sorta di erotismo mistico o di misticismo erotico – che irrompono nelle forme e negli elementi musicali (in quelli armonico-ritmici, specialmente) imponendo al tempo musicale una scansione basata sull’istantaneità dell’emozione” (M. Baroni e altri 1988: p. 411).

Tra i suoi lavori principali sono da menzionare le tre sinfonie (1900, 1901, 1905), il Concerto per pianoforte (1899), due poemi musicali, Il poema dell’estasi (1908) e Prometeo, poema del fuoco (1910) e dieci sonate per pianoforte.

“Dalla Quarta sonata per pianoforte (1907) fino alla Decima ed ultima (1912-13) Skrjabin svincolò definitivamente la sonata dalla struttura tradizionale in più movimenti – già peraltro molto personalizzata nei suoi primi quattro lavori del genere pubblicati in precedenza – sprigionando nel movimento unico il proprio estro creativo in un baluginare continuo di motti aforistici, grumi sonori, arabeschi, gesti improvvisi, vincolati però da legami tematici e formali in un contrasto quasi drammatico fra le esigenze razionali della forma e l’estrema irrazionalità dell’istinto. Quando il vincolo formale si allenta ulteriormente e il pensiero musicale si addensa nella piccola forma, come nei Cinque preludi op. 74 allora ci troviamo alle soglie dell’informale e dell’aforismo, ad un momento limite oltre il quale Skrjabin non poté andare, essendo stroncato dalla morte nella piena maturità creativa” (M. Baroni e altri 1988: p. 411-2).

Skrjabin ha spostato il grado di giunzione degli accordi sulla quarta, sconvolgendo il meccanismo triadico dell’armonia, un elemento che lo apparenta a Debussy e Schönberg.

“A differenza di quasi tutti i suoi contemporanei Skrjabin non si limitò all’impiego di quarte giuste o diatoniche, tipico dell’impressionismo, anche se le utilizzò incidentalmente; né il suo sistema armonico era una concezione puramente intellettuale. Quando egli iniziò a comporre il Prometeo nel 1908 si fondò consapevolmente su ciò che chiamava ‘armonia sintetica’: l’accordo fondamentale do, fa diesis, si bemolle, mi, la, re, un adattamento per quarte della scala do, re, mi, fa diesis, la, si bemolle, che corrisponde agli armonici naturali 8, 9, 10, 11, 13 e 14 – o, piuttosto, alla loro approssimazione nel sistema temperato – e che inoltre differisce solo per una nota dalla scala esatonica o a toni interi (la invece di sol diesis)” (The New Oxford History of Music, vol. X, p: 140).

Le composizioni di molti compositori della “Scuola russa” risentono chiaramente delle influenze della musica di Skrjabin, con particolare riferimento a un certo miscuglio di “misticismo” tradizionalista e gusto per le innovazioni armonico-formali, accanto ad altre di diverso tipo, come quelle “macchinistiche” più propriamente futuriste.

I nomi più importanti della “Scuola russa” sono quelli di Nikolay Andreyevich Roslavets (1881-1944), Efim Golysev (1897-1970), Polovinkin, Arthur Vincent Lourié (1892-1966), Nikolay Obukhov (1892-1954), Alexandr Vasil’yevich Mosolov (1900-1973).

I compositori menzionati vanno considerati sullo sfondo della presenza dei più acclamati compositori russi del secolo, Prokof’ev e Šostakóvič . Il cono d’ombra che li avvolge è frutto di una serie di circostanze – non ultima quella di essere in qualche modo invisi al nuovo regime – che ne ha decretato una profonda damnatio memoriae.

Nikolay Andreevich Roslavets

Nikolay Andreevich Roslavets (1881-1944), ha studiato violino e composizione con S. Vasilenko al Conservatorio di Mosca, dove si aggiudica un premio con la cantata Cielo e terra (su testo di Byron). Nel 1913 compone la Sonata per violino, uno dei primi pezzi atonali comparsi in Russia.

“Sviluppò attorno al 1913 un sistema armonico non diatonico, basato sulle trasposizioni successive di ‘Klangzentrum’ composti da 6 a 8 suoni e la cui struttura scalare corrispondeva spesso a formazioni di tipo simmetrico. Nel metodo di trasposizione di questi complessi, che del resto mostrano affinità con le formazioni utilizzate da Skrjabin nei suoi ultimi lavori, senza per questo esserne dipendenti, Roslavets raggiunse, verso il 1915, una logica di tipo dodecafonico” (Verdi 1998: p. 193).

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, negli anni Venti, si fa promotore e sostenitore della musica d’avanguardia su Musykalnaja Kultura. Per qualche tempo lo troviamo alla direzione della casa editrice musicale di stato e dal 1922 a capo del Conservatorio di Kharkov. Ma risalgono proprio a questo periodo i primi scontri con la critica ufficiale sovietica che dal 1925 lo costringono a un progressivo isolamento. Dal 1930 tenta, senza successo, di ricostruirsi una carriera con la musica leggera per il teatro. Dal 1931-33 è vissuto a Tashkent, dove ha scritto Il cotone, balletto naruzbeko. Ma da quel momento il suo nome scompare dalla scena musicale.

“Il sistema di organizzazione costruttiva delle prime opere atonali di Roslavets risiedeva sul principio del ‘complesso sonoro’ (Gojowy lo denomina ‘Tonkomplex’, mentre Perle ricorre al termine di ‘set’), che rappresentava, in una unità temporale data, il totale dei suoni a disposizione. Attraverso un complesso sonoro era stabilito quali suoni dovessero utilizzarsi e quali no, ma non in quale successione né in che ottava né in quale formazione melodica. […] Roslavets lo riteneva non tanto un mezzo di emancipazione dalle prassi compositive allora più comuni, quanto un mezzo per ordinare il materiale in modo più rigoroso […] Egli era convinto che ‘solo sulle basi di un sistema, un progetto, un principio, poteva essere sviluppata un’arte vera e organica’ (Verdi 1998: p. 193).

Arthur Vincent Lourié

Arthur Vincent Lourié (1892-1966) ha studiato al Conservatorio di San Pietroburgo, presto abbandonandolo per iniziare esperimenti con la tecnica dodecafonica e seriale. Risultato di questi sono un gruppo di pezzi per pianoforte tra cui spicca Synthesis (1915).

“Le caratteristiche innovative di tutta la prima produzione pianistica di Lourié (1914-1915), consistono in:

1. un’idea di prosciugamento alla ricerca di uno scheletro strutturale, una ‘Sintesi Primitiva”;
2. l’uso della tecnica del collage, con il quale si assemblano queste strutture sintetizzate, come isole che si giustappongono, all’interno delle quali le forme paiono vivere una loro stretta interdipendenza formale:

3. procedimenti atonali, derivati dallo sfasamento intervallare;

4. espansione delle linee melodiche, fuori dalla logica di singole tessiture vocali, alla ricerca di vertiginose distanze intervallari e del loro incrocio contrappuntistico;
5. forti opposizioni dinamiche e generale espansione dello spazio sonoro verso i bordi della tastiera, per costruire una prospettiva dilatata” (Lombardi 1994: p. 252-3).

In seguito a una serie di vicissitudini lascia la Russia per Berlino e Parigi, per poi emigrare negli USA e diventare cittadino americano. La prima sinfonia di Lourié, chiamata Sinfonia dialectica (1930) presenta interessanti modalità metrico-ritmiche.

Nikolay Obukhov

Nikolay Obukhov (1892-1954) è risieduto dal 1918 a Parigi, dove viene in contatto con Ravel e il gruppo dei Sei. Influenzato da Skrjabin, è andato elaborando programmi di misticismo simbolista che lo hanno portato a sperimentare un nuovo sistema di notazione e uno speciale strumento elettronico chiamato croix sonore. La sua opera principale è l’azione drammatica Le Livre de la vie (1925).

Alexandr Vasil’yevich Mosolov

Dal 1918 al 1920 Alexandr Vasil’yevich Mosolov (1900-1973) prende parte alla Guerra civile nella brigata Kotovsky. Comincia a comporre nel 1921, studiando privatamente con Giler. In seguito frequenta il Conservatorio di Mosca. Con Zavod (Acciaio) assurge a una certa notorietà, inserendosi in un’atmosfera di neo-primitivismo cui indulgevano in quegli anni anche Satie e Honegger, ma negli ultimi anni Venti si rifugia nel seno del “realismo socialista” con opere quali Geroy (L’eroe) e Plotina (La madre). Nel periodo 1927-31 questo ritorno non gli risparmia una dura reprimenda da parte dell’Associazione proletaria dei musicisti russi, che lo costringe a un ulteriore addolcimento dei suoi procedimenti tecnico-formali.

A questo gruppo di compositori bisogna accostare alcune figure di minor spicco, come Vladimir Mikhaylovich Deshevov e Gavriil Nikolayevich Popov, testimoni della accentuata sovietizzazione della musica russa, con i suoi imperativi di realismo populista e celebrativo.

Il periodo staliniano

Anche se Stalin ha mosso le sue pedine in precedenza, è nel 1929 che va collocata la ‘grande svolta’ staliniana. Fino ad allora, in parti­colare a Leningrado, c’era una vita culturale intensa, venivano rappre­sentate opere occidentali come il Wozzech di Alban Berg. Nel 1930 Stalin fa chiudere le associazioni degli artisti rivoluzionari e le sosti­tuisce con le Unioni dei creatori. D’ora in poi l’arte e l’artista, total­mente strumentalizzati, non a­vranno altra missione che cantare le lodi del regime, celebrarne la perfezione. L’artista – per Stalin, lo scrittore come il musicista – è con­siderato ‘l’ingegnere dell’anima u­mana’. Abbandona l’ambito ap­partato dell’arte per l’arte per met­tersi al servizio della comunità. Per il regime sovietico, la musica dove­va essere illustrativa e funzionale.  Da questo momento in poi sarà estremamente difficile sottrarsi alle direttive del regime.

La dottrina Ždanov

Il segretario del Comitato centrale del PCUS Andrej Ždanov nel 1946 propone una risoluzione del 1946 contro due riviste letterarie, Zvezda e Leningrad, che avevano pubblicato delle opere considerate apolitiche, “borghesi” e individualistiche dell’autore satirico Michail Zoščenko e della poetessa Anna Achmatova. Fa così il suo esordio lo ždanovismo, che si propone di combattere il “cosmopolitismo” e l’emulazione di modelli stranieri..

Un decreto successivo sulla musica fu emanato il 20 febbraio del 1948, “Sull’opera Velikaja družba di Muradeli”, e segnò l’inizio della cosiddetta “campagna anti-formalista”, dove il termine “formalismo” si riferiva all’arte realizzata per il solo interesse artistico e priva di uno scopo sociale o politico. Riguardante principalmente l’opera di Vano Muradeli, il decreto portò ad una campagna di critica e persecuzione contro molti dei compositori sovietici più importanti, come Dmitrij Šostakovič, Sergej Prokofiev, Aram Chačaturjan e Dmitrij Klebanov, per sospetta composizione di musica “ermetica” e abuso della dissonanza.

Il decreto fu seguito ad aprile da un congresso speciale dell’Unione dei compositori, dove molti tra quelli attaccati furono costretti a pentirsi pubblicamente. Šostakovič fece una satira di tale campagna nell’opera Il piccolo paradiso anti-formalista. I compositori condannati furono formalmente riabilitati da un decreto emanato il 28 maggio del 1958.

Vladimir Mikhaylovich Deshevov

Vladimir Mikhaylovich Deshevov (1889-1955), ha studiato piano e composizione al Conservatorio di San Pietroburgo con Winkler, Nikolayev, Lyadov, Kalafati e Shteynberg. Dopo la guerra comincia ad assumere una serie di incarichi ufficiali, come segretario del comitato di educazione popolare a Elizavergrad, fondatore e direttore del Conservatorio di Sebastopoli e direttore dela rete dei collegi musicali dell’Ucraina.

Al centro delle preoccupazioni musicali di Deshevov troviamo il teatro d’opera. L’opera Lyod i stal’ (Ghiaccio e acciaio) venne paragonata al Naso di Šostakóvič. Le sue composizioni si iscrivono in un ampio raggio di soluzioni formali, dai pezzi diatonici alla maniera di Honegger e Prokofiev alla costruzione macchinistica e cromatica del tipo di Relsi (Rotaie), per piano.

Gavriil Nikolayevich Popov

Gavriil Nikolayevich Popov (1904-1972), compositore e pianista, ha studiato al Conservatorio di Leningrado con Shcherbachov per la composizione e Nikolayev per il piano. La sua produzione più importante bisogna cercarla nel campo delle sinfonie (in particolar modo la seconda e la quarta), che si riallacciano alla tradizione di Borodin e Glazunov. Ha sempre nutrito una propensione per il folklore, non soltanto per quello russo. In alcune opere tuttavia si avvicina a forme di sperimentazione di un qualche rilievo, che ne giustificano la menzione in questa sede. Soprattutto nelle opere di Deshevov alcune ardite soluzioni tecnico-formali del primo costruttivismo russo confluiscono in esiti propagandistici delle conquiste materiali del socialismo sovietico.

Ivan Alexandrovich Wyschnegradsky

Il più significativo esito compositivo della Scuola russa lo troviamo però nella generazione successiva, nelle opere di Ivan Wyschnegradsky; questi, dopo l’espatrio in Francia, costituirà tuttavia un caso a sé, radicalizzando alcune intuizioni tipiche dello skrjabinismo.

Se per Alois Hába l’estensione microtonale rappresentava “una maniera d’arricchire l’antico sistema fondato sul semi-tono grazie a delle differenziazioni tonali più fini, ma non di distruggerlo”, la questione si pone in termini molto più complessi nell’opera di Ivan Alexandrovich Wyschnegradsky (1893-1979), che rappresenta la punta più avanzata di questo genere di ricerche in Europa.

Il compositore russo rappresenta, inoltre, nella nostra ricerca, il punto di transizione tra il primo e il secondo periodo, anche per l’influenza che ha avuto soprattutto in Francia, in filigrana rispetto alle vicende musicali del secondo dopoguerra.

Wyschnegradsky ha studiato al Conservatorio di San Pietroburgo con Sokolov, che lo ha avviato all’opera di Skrjabin. Risultato di questo periodo di formazione è un oratorio basato sull’idea della “evoluzione della coscienza universale” concluso con un cluster di 12 note su 5 ottave, sulla scia di Skriabin: si tratta di Den’ Bytija (La journée de l’existence) su testo proprio (1916-17). Il testo racconta “sotto una forma poetico-drammatica la storia dell’evoluzione della coscienza nel mondo a partire dalle sue forme più primitive fino alla forma finale perfetta: la coscieenza cosmica”.

Wyschnegradsky , nutrito di idee matematiche, ha cercato di sviluppare successivamente il concetto di continuum sonoro, su cui si basano le pratiche da cui sono derivati i suoi tentativi seguenti di operare con microintervalli e con sistemi ultracromatici.

Dopo essere emigrato in Francia, nel 1920 sulla scorta della frequentazione di Richard Stein, Jorg Mager, Willy Möllendorf e Aloïs Hába, con il quale ha collaborato nel 1922-23, ha tentato, con scarso successo, di realizzare il progetto di un pianoforte a quarti di tono. Nel 1936 ha utilizzato effettivamente pianoforti accordati a distanza di un quarto di tono. In un ambito di una più generale poetica compositiva, negli anni ’50 ha poi elaborato l’idea degli spazi sonori non-ottavanti.

Wyschnegradsky è andato elaborando nel tempo dettagliate tabelle di corrispondenze fra suoni e colori:

“Je faisais du piano et j’avais remarqué que les notes conjoinctes, les secondes, sonnaient aiguës, perçantes. les tierces, j’amais beaucoup, car c’etait rond et chaud; alors que les quintes m’inspiraient una véritable répulsion à cause de leur froideur. Il y avait sûrement là un rapport avec les couleurs”.

Sempre sulla scia di Skrjabin, è giunto a progettare un tempio nel quale la sua musica doveva essere eseguita, affermando a più riprese che il problema centrale della musica era l’antitesi fra il continuo e il discontinuo, cioé tra l’ideale e il materiale e definendo Pansonorità questa sorta di continuum che produce una spinta verso l’infinito realizzata con mezzi sonori.

Il Premier Quatuor à cordes en quart de ton op. 13 (Primo quartetto d’archi a quarti di tono), composto nel 1923-4 e rivisto nel 1953, prova che Wyschnegradsky non adottò un modo senza avervi a lungo riflettuto. Lo stato attuale della ricerca non permette sfortunatamente di dire a cosa somigliasse la composizione prima della revisione del 1953. Ogni giudizio di ordine estetico possiede, nell’assenza di una prova filologica, un certo margine di incertezza. Di conseguenza bisogna considerare con prudenza i propositi concernenti il primo quartetto (1).

Wyschnegradsky ha mostrato nel corso delle sue speculazioni una particolare predilezione per nuove formazioni scalari; nella sinfonia per quattro pianoforti Also sprach Zarathustra (1938), sono utilizzati due modi ottofonici tono-semitono a distanza di un quarto di tono. Nei 24 Preludi (1954) Wyschnegradsky ha utilizzato, all’interno di una divisione dell’ottava in 24 parti uguali, una scala non simmetrica di 13 suoni.

Tra le altre sue opere Premier Quatuor à cordes, op. 13; Deuxième Quatuor à cordes, op. 18; Cosmos, opus 29 (1939); Transparences I, op. 36 (1953); Troisième Quatuor à cordes, op. 38 bis; Composition pour Quatuor à cordes, op. 43; Transparences II, op. 47 (1963); Composition en quarts de ton (1963); Trio pour violon, alto et violoncelle, op. 53.

Il compositore russo ha scritto articoli e saggi interessanti per la comprensione della sua opera e della sua concezione della musica. E’ anche autore di un Manuel d’harmonie à quarts de ton (Paris 1932).

Il periodo post-staliniano

Il decennio che segue la morte di Stalin (1878-1953) porta alla nuova generazione di compositori e teorici che negli anni Sessanta costruisce un’autentica musica sovietica differenziata da repubblica e repubblica, ma comune nell’interrelarsi delle esperienze nella ricerca di una identità condivisa, e senza alcuna subalternità nei confronti della nuova musica occidentale. In questo senso, torna a essere fondamentale è il ruolo di Sostakovic, non solo per il modo in cui le sue composizioni pongono le questioni di fondo di una vera musica sovietica, ma anche per la sua partecipazione al dibattito su di essa.

Edison Denisov

In questo contesto emerge a Mosca Edison Denisov (1929-1996), forse il principale attore del rinnovamento musicale sovietico dagli anni Sessanta in avanti, che, rifacendosi culturalmente all’avanguardia musicale sovietica degli anni Venti (soprattutto a Roslavets), assume in maniera critica la serialità bouleziana per una personale elaborazione linguistica che, in Le soleil des Incas per soprano e strumenti su testi di Gabriela Mistral (1964) o in Epitaffio per orchestra da camera (1983), prima dell’involuzione nel postimpressionismo di Quatre jeunes filles del 1996, perviene, fuori da ogni previsione linguistica, a un polimorfismo musicale che riporta a Sostakovic, da Denisov stesso definito all’origine della coscienza critica dei nuovi compositori sovietici.

Fonte di ispirazione è soprattutto lo Šostakóvič delle ultime sinfonie, dalla Dodicesima, del 1953 alla Quindicesima, del 1971, ma con particolare riguardo alla Tredicesima (Babij Jar), del 1962, su testo di Evtuscenko, per basso, cori di bassi e orchestra, e alla Quattordicesima, del 1969, su testi di García Lorca, Apollinaire, Kükerbeker e Rilke, dove un frequente uso del canto popolare di ascendenza musorgskiana concorre alla destabilizzazione della sintassi musicale colta e alla reinvenzione della forma sinfonica emancipata da ogni modulo storico.

NOTE

(1) Scrive Ivan Wyschnegradsky in “Quelques considérations générales à propos du Quatuor à cordes opus 13”:

“Quest’opera è basata su un’idea armonica specifica. E’ questa e solo questa che le conferisce la sua unità. Quest’idea consiste nella disposizione di quattro suoni nella maniera più stretta possibile, cioè per quarti di tono. E’ con quest’accordo che l’opera comincia (do, do monesis -innalzato di un quarto di tono- do diesis, do triesis -innalzato di tre quarti di tono), ed è esattamente con quest’accordo che l’opera finisce (gli stessi quattro suoni non trasposti) e durante tutta l’opera questi tornano continuamente (in differenti trasposizioni). Vista sotto questa angolatura, tutta l’opera può essere considerata come una pulsazione di questa armonia fondamentale, che si dilata (i 4 suoni si espandono per settime) e si restringe, creando nel suo cammino diverse forme armoniche, melodiche e ritmiche, come se una forza agglutinante spingesse costantemente le quattro voci a serrarsi le une contro le altre il più strettamente possibile. Questa forza agglutinante si trova tuttavia controbilanciata da una forza opposta che spinge i suoni a separarsi dagli altri (senza questa forza opposta non ci sarebbe l’opera, ma solamente l’accordo iniziale in stato di immobilità). L’opera in definitiva risulta dall’equilibrio di queste due forze. Tre le forme armoniche dilatate deve essere specialmente sottolineato il rivolto dell’accordo fondamentale, cioè un accordo composto di settime a quarti di tono (23 quarti di tono) sovrapposte, questo intervallo essendo il rivolto della seconda a quarti di tono (1 quarto di tono). Il passaggio di questa forma dilatata alla forma più contratta dà vita nella seconda metà dell’opera a una formula composta di 4 accordi che appare per la prima volta alla misura 115 e che in seguito si ripete molte volte. E’ con essa che l’opera termina.

Il primo accordo di questa formula è il rivolto dell’armonia fondamentale (forma dilatata), l’ultimo accordo è l’armonia fondamentale stessa (forma contratta), il secondo e il terzo accordo sono forme intermedie che si riducono ad accordi per quinte e quarte sovrapposte. Questa formula, senza essere una cadenza nel senso proprio del termine, possiede nondimeno un certo carattere cadenzale.

Il movimento delle due voci superiori è simmetricamente inverso a quello delle due voci inferiori. Il movimento del primo violino e il rivolto di quello del violoncello (3 avanzamenti successivi per 11 quarti di tono discendente al primo violino, ascendente al violoncello), il movimento del secondo violino è il rivolto del movimento della viola (il secondo violino esegue tre movimenti discendenti, successivamente di 1, di 9 e di un quarto di tono e la viola esegue gli stessi tre movimenti, ma nell’ordine ascendente). I rapporti reciproci di questi 4 accordi meritano di essere analizzati. Per poter compararli li presenteremo nella stessa forma. Così l’accordo 1, presentato nella sua forma contratta, rivelerà l’identità della sua struttura con quella dell’accordo 4; nello stesso modo gli accordi 2 e 3 riveleranno l’identità delle loro strutture.

Successione degli stessi accordi con l’utilizzazione di suoni comuni

I due suoni estremi restano fermi; i due suoni interni si spostano a distanza di un tritono.

Spostamento parallelo di tutti i suoni a distanza di un tritono

I due suoni superiori restano fermi: i due suoni inferiori si spostano a distanza di un tritono

Una questione si può porre: questo quartetto è un’opera tonale o atonale? Non si può definire tonale perché nessun accordo di tipo dominante o sottodominante tende verso qualche suono centrale e quindi non si manifesta nessuna funzione tonale. D’altra parte non può essere definito atonale perché l’opera inizia e termina con lo stesso accordo non trasposto, condotto alla fine con una formula quasi cadenzale. La situazione privilegiata che occupa in ogni accordo: da una parte il suono grave, d’altra parte quello acuto non ci permette di affermare la supremazia nell’accordo iniziale (e finale) dei suoni do e do triesis sui suoni do monesis e do diesis. Un’uguaglianza perfetta regna tra questi quattro suoni agglutinati che in rapporto agli altri venti hanno l’aspetto di suoni privilegiati. Ma sarebbe inesatto concluderne una quadruplice tonalità e vedere in questi quattro suoni quattro toniche differenti. Saremo più vicini alla verità evocando la nozione di “tonalità densa” (tonalité épaisse). La “tonica” dell’opera non è rappresentata dai quattro suoni presi insieme, né alcuno di questi suoni presi separatamente, ma tutta la regione sonora compresa tra il do e il do triesis e di cui lo spessore (l’épaisseur) è di tre quarti di tono. Questa regione preferenziale è infatti pensata da parte mia come una regione continua, composta da un numero infinito di suoni e solo il bisogno d una realizzazione sonora fa che questa infinità si trovi ridotta a quattro suoni disposti per quarti di tono. Potrebbero essere benissimo sette suoni disposti per ottavi di tono o dieci suoni disposti per dodicesimi di tono o altre disposizioni. In questi casi l’opera avrebbe potuto essere tutt’altra cosa.

Altrimenti detto, l’opera stessa e la sua struttura sono strettamente determinate dalla scelta del milieu sonoro (quarti di tono). Ma d’altra parte l’opera non è meno determinata dal fatto che la sua “tonica” non è un suono musicale, ma tutta una regione sonora continua dello spazio musicale il cui spessore è di tre quarti di tono e comprendenti un numero infinito di suoni.

Per estensione della nozione di tonalità densa, allargando sempre più l’intervallo continuo fino alla dimensione dello spazio totale, noi arriviamo progressivamente, passando per tutti i gradi dello spessore, a quello che avevo chiamato pantonalità. La “tonica” non è più un suono musicale isolato, e neanche una regione continua dello spazio musicale, è tutto lo spazio musicale udibile allo stato della sua continuità sonora. Ne consegue che logicamente la nozione di pantonalità (pantonalité) equivale a quella di atonalità, per il fatto che laddove la tonalità è dappertutto non è da nessuna parte in particolare, dato che il primo termine (pantonalità) è l’espressione positiva e la seconda (atonalità) l’espressione negativa della stessa cosa. La nozione di tonalità diviene dunque superflua e con essa quella di pantonalità, che in fondo è un termine assurdo, perchè si auto-contraddice. Piuttosto che di pantonalità occorrerebbe parlare di pansonorità, termine più concreto, designante che tutto lo spazio è sonorità e non vi è un solo luogo, un solo punto dello spazio ove la sonorità non sia presente. E’ questo stato di pansonorità o di onnipresenza nella totalità dello spazio musicale, è questa pienezza nella quale “tutto lo spazio suona” che è l’equilibrio perfetto, la “consonanza” ultima e assoluta verso la quale tende al fondo tutta la musica nella misura in cui tensioni tonali puramente sonore non vengono a ostacolare il gioco di questa forza naturale”.

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D. Gojowy (1980), “Roslavets, Nikolay Andreyevich”, in NGMM.
D. Gojowy (1983), La vie musicale en URSS de 1900 à 1930, Paris.
M. Kelkel (1983), Alexander Scriabine et ses contemporaines, Paris.
D. Lombardi (1991), “La musica pianistica di Aleksandr Mossolov”, in Musica/Realtà, n. 31, 1991, pp. 81-86, ora anche in Il suono veloce, Ricordi-LIM, Milano 1996.
D. Lombardi (1994), “La musica pianistica di Arthur Vincent Lourié”, in Musica/Realtà, XV, 43, pp. 61-78, ora anche in Il suono veloce, Ricordi-LIM, Milano 1996.
L. Verdi (1998), Organizzazione delle altezze nello spazio temperato, Diastema,Treviso.

Antonio De Lisa

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