Primo festival internazionale di poesia- Castelporziano 1979
Da Fuori Orario di Rai 3: estratti dal Primo festival internazionale di poesia tenutosi a Castelporziano, sul litorale laziale, nel 1979. Estratti dalle letrture-happening di Ted Joans (Bread), Evgenij Aleksandrovič Evtušenko – Евге́ний Алекса́ндрович Евтуше́нко – (Vorrei nascere in tutti i paesi) e Allen Ginsberg (da Father Death Blues).
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Testimonianza di Franco Cordelli
Franco Cordelli, Castel Porziano, Festival dei Poeti
Franco Cordelli, La poesia, La voce
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Castelporziano, Ricordo e dimenticanza
Castelporziano è un luogo sconosciuto. Sempre ne scrivo (mi chiedono di scriverne, di rievocare, di ricordare, come lo si chiede ai reduci di qualcosa) e niente ne so, sempre meno ne ricordo. I giorni del festival furono i tre giorni finali di giugno del 1979. Vi tornai per la prima volta quindici anni dopo. Vi accompagnai una giovane mamma con la sua bambina. Non le facevo la corte (almeno credo) e, con la bambina, mi trovavo a disagio. Non ero abituato. Non lo sono. Ma rivedere le dune di sabbia mi faceva effetto, mi commuoveva, oppure mi lasciava indifferente. Mi commuoveva o mi lasciava indifferente? In verità i luoghi che vedevo in quel momento, estate del 1993 o del 1994, mi erano estranei, c’ era il sole, era giorno pieno, pochi bagnanti, il deserto. La Castelporziano che conoscevo, quella mitica, irreale, era notturna, era un’ altra Castelporziano, rumorosa, piena di gente, di clamore, di suoni, di voci, di musica. Di tanto in tanto la mia mente è visitata da un’ immagine, specie delle persone che non ci sono più. Rivedo Dario Bellezza, con il suo fazzoletto al collo. Arringava il pubblico tumultuante, non lo volevano ascoltare, Bellezza era offeso, o fingeva d’ essere offeso, volete che legga? se volete bene, altrimenti non leggo, voi non amate la poesia. Così li sgridava, deprecava che quei ragazzi, quei mille, duemila, cinquemila imprevisti spettatori, nel buio della notte, in riva al mare, non fossero supremamente attratti dalla poesia, la poesia prima di tutto. Oppure rivedo Allen Ginsberg, l’ ultima sera, la sera dei trentamila. Il pubblico, già imprevedibilmente straripante, era diventato un’ entità informe, incalcolabile, attratto dai nomi esotici dei poeti (Ginsberg, Burroughs, Corso, Evtuschenko) o dalla pubblicità dei giornali. Esso rumoreggiava, appariva come una forza incontenibile e incontrollabile. Ma il poeta americano, accanto al suo grande amico, Peter Orlosvki, con la sua allora folgorante coda di cavallo, tranquillamente si sedette sul palco, incrociò le gambe come un guru indiano e intonò un mantra suonando l’ organetto, all’ unisono con Orlovski. Di colpo, sulla spiaggia scese un’ innaturale silenzio. La belva era stata domata. Era accucciata, silente, stordita. Come avvenne questo miracolo? Fu uno dei tanti di Castelporziano. Un altro, minimo, che ora ricordo per la contiguità dell’ evento, fu (per me) l’ apparizione di Gina Lagorio. Ora che non c’ è più, è la prima volta che racconto questo episodio, mi viene in mente che all’ imbrunire del 28 giugno, primo giorno del festival, proprio prima che tutto cominciasse, arrivai sulla spiaggia in calzoni corti e, distaccandosi dal palco, andandosene via poichè (credo) aveva ritenuto che il festival si sarebbe svolto al tramonto e la sera aveva qualche impegno, mi venne incontro la persona che meno mi sarei aspettato di incontrare su quella spiaggia. Avevo conosciuto Gina Lagorio uno o due anni prima. Fu un dialogo tra sordi. Anzi, tra un sordo che non era affatto sordo (lei) e un muto (io). Lei era la moglie del mio editore, Livio Garzanti, io era ultraintimidito. Lei esprimeva le sue opinioni, con gentilezza, con garbo, ma con fermezza. Io non osavo replicare. Lei amava scrittori che non avevo neppure letto e che non pensavo di leggere mai. Mi arrischiai a difendere la causa di Luigi Malerba. «Le piace “Il serpente”? E “Salto mortale”?» Ma l’ incontro a Castelporziano fu diverso. Intanto il padrone di casa, per così dire, ero io. Non mi sentivo padrone di niente. Ma, insomma, eravamo lì, non già in via Senato, a Milano, nella sede della Garzanti. Lei mi vide da lontano, fu lei a venirmi incontro, a salutarmi festosamente. Mi fece un complimento che non riferisco, ne arrossirei, riguardava il mio abbigliamento. Non era più la moglie dell’ editore, non era la scrittrice di successo, era una bella donna che amabilmente si rivolgeva ad un ragazzo. Quello stesso, ed è l’ ultimo episodio che voglio ancora una volta ricordare, che l’ ultima notte, la notte del 30, dormì per la prima volta in vita sua con un… uomo. Costui era il grande scrittore argentino Osvaldo Soriano, l’ autore di «Triste, solitario y final». L’ albergo di Ostia, dove alloggiavano poeti e organizzatori, s’ era infoltito di presenze. Si fu costretti ad aprire un’ ala chiusa per disinfestazione. Soriano, che le notti precedenti aveva dormito nella stessa stanza del poeta francese Jean-Pierre Faye, trovò il suo letto occupato da una (bella) ragazza. Me lo comunicò con una punta di umorismo e con un velo di malinconia. Per rincuorarlo, gli offrii un posto accanto a me, nel mio letto, che era un letto matrimoniale, in quell’ ala da poco disinfestata. Dormire con un uomo mi sembrò sfacciatamente intimo. Ma in quelle poche ore si saldò un’ amicizia e se Castelporziano l’ ho dimenticata o vado dimenticandola, di Soriano non mi dimenticherò mai. Franco Cordelli
Franco Cordelli
(da Corriere della Sera, 9 agosto 2005)
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Recensione sul New York Times
This documentary was shot at a three-day celebration of poetry (a “Poets’ Festival”) at the beach of Castelporziano near Rome in the summer of 1979. Pier Paolo Pasolini was killed on this beach a few years earlier and his murder is commented on by Evgeny Yetushenko at the beginning of the documentary. On the first day of the event, the camera focuses on both poets and audience, and reveals a striking reality: the audience is not only indifferent, it is increasingly antagonistic, and when one of the least-liked of the minor poets is booed off the stage, he flashes the audience in response. As the day wears on, objects go flying through the air, catcalls abound, and the self-styled poets seem to be taking their life in their hands when they get up in front of the microphone. Back at the hotel where they are staying, Allen Ginsberg, Le Roi Jones, Yevtushenko and others discuss whether or not to go on with the planned third day. Meanwhile, as the camera pans across nearby beaches and out into the harbor, there is obviously no one around who realizes that this international event is taking place right next to them. Have the poets lost their touch in communicating with the world at large — or has the world become a place that is inhospitable to poets of any range of ability? The documentary raises these issues and lets the viewers formulate their own, individual opinions. ~ Eleanor Mannikka, All Movie Guide
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Il festival internazionale di poesia a Piazza di Siena (Roma) nel racconto di Pier Vittorio Tondelli, Un week-end postmoderno, Bompiani, Milano 1990 (Scritto nel 1980).
‹‹Nel bellissimo anfiteatro di Piazza di Siena, fra festoni spioventi di luci colorate e cascate al neon e gazebo fluorescenti, si sta svolgendo il secondo festival internazionale dei poeti, seguito ideale delle tre giornate di Castelporziano dello scorso anno, dove, tra minestroni creativi, poesie spontanee e marginali e dagli abissi, cedimento dei palchi, streaking, canti indiani, contestazioni più o meno violente, presenze dei santoni della beat generation, si consumò un grande happening culturale, la festa della creatività diffusa, forse l’ultimo momento collettivo e impegnato del cosiddetto “Movimento”. In quei giorni, alcune migliaia di giovani e di intellettuali di ogni razza e tribù convissero su una spiaggia e attorno a un palco per celebrare il rito della poesia. Oggi invece a quella spettacolarità quotidiana che si alzava il mattino presto, anzi, nemmeno se ne andava a dormire, si è sostituito un dopocena letterario o, per essere precisi, un dessert culturale a sorpresa, visto che a Piazza di Siena gli organizzatori, il comune di Roma e l’associazione Beat 72, hanno infilato non solo letture pubbliche di poesia, ma pure incontri di astrofisica, concerti di musica indiana, spettacoli con Benigni, Tognazzi, Villaggio, per approdare infine, il 31 luglio, a ciò cui tutto approda, cioè l’Alighieri Dante: il team Leo e Perla che eseguirà, oilalà, il trentatreesimo canto dell’Inferno.
Risulta evidente che non si potrà, durante queste giornate, parlare di ciò che si muove sul piazzale della poesia, fissare percorsi, riciclare scuole, indirizzi e codici postali, ma soltanto raccontare di come oggi, in questo momento, anche la poesia sia investita da un furore carnevalesco e, quindi, anch’essa partecipi, con modi suoi, a un più generale progetto di “spettacolarizzazione del lavoro culturale”. […] Già un’ora prima dell’inizio c’è un nevrotico viavai, su e giù dalla scaletta. Si stanno decidendo i turni di lettura e il programma. I poeti si litigano la successione e girano con fogliettini di carta grandi come biglietti del metrò. Dalla platea sembra di assistere a una tombolata, perché l’organizzatore li estrae di saccoccia e non finisce più. Giuseppe Conte intanto (“Serpente orfico” lo chiamerà, con devota ironia, Valentino Zeichen presentandolo al pubblico) passeggia nervosamente in compagnia di Mario Baudino. Gli faccio un cenno, chiedo che cosa pensa del festival, come si sente. Il discorso cade su Castelporziano. “Là era una cosa molto diversa,” afferma. “Il problema è tutto nel cercare una tensione fisica ed emotiva, una vibrazione collettiva. Io preferisco allora le letture con quaranta, cinquanta persone. Qui è praticamente impossibile far nascere un’armonia.” […]
E chiaro che Giuseppe Conte, con tutto il suo dannunzianesimo e il suo amore per i deliri alla D.H. Lawrence, non può essere così tranquillo sul palco a leggere in mille watt ciò che probabilmente ha creato in silenzio, a urlare in faccia a un pubblico già scaldato da tre, quattro poetesse, la sua Ballata dell’Isola della Tartaruga. È uno dei tanti grovigli di senso di questo festival che piazza davanti allo stesso microfono poeti dal sound bellissimo (come tutti gli americani), poeti dal sound difficilissimo (come, in generale, gli italiani) e poeti che proprio non ricercano minimamente questo aspetto della parola parlata, ma contemplano unicamente la visualità della parola scritta.
Molto più a suo agio Adriano Spatola, ormai collaudato a questo genere di esibizioni. Inizia le sue declamazioni con il poema Ocarina. Il pubblico ridacchia, ma non sa che cosa l’aspetta. Infatti Spatola inizia a ululare e a far bau bau come un coyote e stropicciarsi l’ugola mentre un suo socio spiffera dentro l’ocarina (di Budrio, naturalmente) solo alcune, iterative, note. Il pubblico assiste perplesso. E questo è un poeta? Seguono poesie per Ulrike Meinhoff e composizioni che fino a poco tempo fa si chiamavano “poemi civili”. Gli spettatori tirano un sospiro di sollievo. Un po’ di ideologia, di belle parole, di indignazione politica, di ribellione. E invece Spatola riprende con gli “uauaaaah!” e “blaaaaahhh”. Finalmente gli ascoltatori capiscono il personaggio e iniziano a divertirsi: ridacchiano, applaudono e dimostrano, in questo modo, ciò che già da tempo si sapeva, e cioè che la poesia di Spatola, la sua ricerca fonetica e vocale, è in grado di reggere qualsìasi platea proprio per la sua natura di divertissement, di astuto e comico gioco sonoro. E Spatola sa benissimo tutto ciò. E fa il puttanone come quelle rockstar che, conoscendo il loro successo, riservano a fine concerto il pezzo più celebre per gettare in delirio i fan già surriscaldati, e non appena attaccano il motivo tutti a urlare e a stracciarsi le vesti. Così fa Spatola quando, sornionamente, dice: “Concluderò con una cosina che forse alcuni di voi conoscono… Aviateur Aviation.” Al che tutti: “Ci siamo!” Scattiamo in piedi ad ascoltare la sua voce chioccia che romba e spara e s’inarca a inseguire l’utopico spettro semantico dell’espressione, a evocare, con giri di lingua, stirature di gola, magoni d’aria e rutti di panza, il rombo di ciò che è semplicemente convenzione linguistica. Lo Spatola prende fiato, si fa rosso e comincia: “A-a-a-a viation… Avia-a-a teuurrrrrrr-vrom vrom mmmm- mmmmm [risalita] crock-crack [cedimento] ta-ta-tta [guerra aerea]” Poeta d’avanguardia? Cabarettista? Attore? Lestofante? No. Semplicemente Adriano Spatola.
Uguale trionfo non tocca a un altro poeta sonoro, il professor Arrigo Lora-Totino che si presenta indossando una calzamaglia nera e recita, con corpo-voce, alcuni testi futuristi. Il pubblico non gradisce e non capisce e bombarda con bucce d’anguria, e quando l’eco-proiettile raggiunge il poeta e si spacca sul suo corpo con il rosso dell’anguria che schizza e le gocce d’acqua che brillano in controluce, è davvero un coup de théâtre. Tutti applaudono e cercano il bis, cosicché sembra che si stia facendo il tiro al piccione e non ascoltando il più grande esperto di poesia fonetica, il miglior declamatore della poesia delle avanguardie storiche. Dovevate essere a Correggio un anno fa, a sentirlo, una ventina di persone, e lui che s’agitava e rombava e arrancava ogni parola come se fosse una massa fìsica, davvero okay (e ci fece ascoltare persino una registrazione radiofonica, l’unica, della voce di Antonin Artaud)… Va be’, le contestazioni non hanno mai ammazzato nessuno. La serata di poesia procede con i lieti arrivi di Alberto Moravia ed Enzo Siciliano. Si succedono sul palco altri trenta, quaranta poeti che, un po’ stancamente, col pubblico che scivola via, raggiungono le ore piccole. E la nottata finisce con l’occupazione del palcoscenico da parte dei soliti freak che cantano, declamano e gesticolano le pagine dei loro diari o, peggio, quelle brevi frasi smozzicate che, per quasi tutto il decennio appena passato, si sono messe addosso il nome di “poesia”››.
Pier Vittorio Tondelli
Milano Poesia
Categorie:S05- Movimenti Storie e Musiche degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo
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