Antonio De Lisa- Medicina simbolica. La consunzione per tisi nelle arti

Renè Laennec, inventore dello stetoscopio

Una malattia ”ulcerosa, escavante e consuntiva”

La parola “tubercolosi” deriva dalle lesioni istologiche, chiamate “tubercoli”, che compaiono nei diversi organi colpiti dall’infezione. Infatti, lesioni ossee tubercolari attribuibili al morbo di Pott sono state riscontrate in scheletri umani di circa 5000 anni a.C., oltre che in mummie egizie del 4000 a.C, come nota il dott. Antonio Semprini in un’esauriente storia della malattia dall’antichità a oggi. La tubercolosi era conosciuta nell’antica India e nell’antica Cina, come risulta dagli antichi trattati medici, ma anche nell’America precolombiana, come attestato da osservazioni osteo-archeologiche.

Nell’antica Grecia la “tisi” (altro nome con cui è definita la tubercolosi, che in greco antico significa “consunzione”) era conosciuta e se ne parla sia in Erodoto (V sec. A.C.) che negli scritti ippocratici del “Corpus” (III sec. A.C., Scuola alessandrina), dove la malattia è descritta con grande precisione clinica. era colto l’andamento caratteristico delle lesioni tubercolari con distruzione del tessuto polmonare e un processo spesso cronicizzante che provocava la progressiva consunzione del malato.
Per quanto la malattia non fosse ancora ritenuta contagiosa, in un passo dei suoi scritti Isocrate (IV sec. A.C.) fa capire che il dubbio si stava insinuando nella mente degli studiosi, mentre Aristotele riconosceva la natura contagiosa della scrofola del maiale e del bue.

In epoca romana ne fanno cenno Celso, Areteo di Cappadocia e Celio Aureliano. In particolare Areteo descrive l’aspetto caratteristico dei tisici: debolezza generale, pallore cutaneo, colorito acceso dei pomelli, petto esile, scapole alate, gracilità del tronco e degli arti. Ma gli autori dell’età classica non arrivarono a comprendere che anche la scrofola (Tubercolosi linfonodale cervicale), il morbo di Pott, il lupus tubercolare, tutte manifestazioni extra polmonari della malattia, fossero da ascrivere ad un unico agente morboso.

Tra i medici bizantini Alessandro di Tralles, Ezio di Amida e Paolo di Egina, scrivono nei loro trattati limitatamente alle forme polmonari e a quelle ghiandolari (scrofole) della tubercolosi. Tra gli Arabi, Avicenna parla della tubercolosi come di una malattia ”ulcerosa, escavante e consuntiva”, ed esprime il sospetto che la tisi sia una malattia contagiosa.

In epoca medievale occidentale si ha la prima proposta d’intervento curativo delle scrofole da parte del chirurgo francese Guy de Chauliac (1363).

La scrofola o “morbo regio”

Le assegnò questo nome Gilbertus Anglicus che aveva studiato a Salerno tra il 1180 e il 1190, abbandonando poi gli studi Salernitani per seguire Riccardo Cuor di Leone nella Crociata. Nel capitolo “De scrofolis et glandulis” del suo Compendium Medicinae egli scrive “morbus regius quia reges hunc morbum curant”.

Tillemont (Parigi, 1849), così descrive la cerimonia nella vita di S. Luigi Re di Francia: ”Il Re dopo essersi preparato con digiuni e preghiere, dopo essersi accostato al S. Sacramento e avere venerato per tre giorni l’arca di S. Marcolfo a Corvigny, riceveva i malati che sfilavano innanzi a lui. Indi poneva le dita sulla glandola scrofolosa e la benediceva col segno della Santa Croce, pronunziando le parole di Nostro Signore:” Le Roi te touche et Dieu te guerit”.

Si narra che nel 1775 Luigi XVI, in occasione della sua incoronazione avesse toccato 2400 malati e che nel 1824 l’ultimo dei sovrani di Francia, Carlo X, per celebrare la sua incoronazione, avesse toccato 121 malati, propostigli addirittura da due illustri chirurghi come Alibert e Dupuytren.

Ma se volessimo fare una statistica dei casi di tubercolosi ghiandolare sulla base del numero delle persone “toccate” dai diversi re di Francia da Francesco I (che nel 1528-30 toccò 1806 malati) in poi, non avremmo un quadro reale della epidemiologia di questa manifestazione morbosa, perché l’accorrere dei malati dal re per farsi toccare era viziato in eccesso dal fatto che al “tocco” faceva seguito un’elemosina. Tuttavia esisteva anche una medicina più corrispondente alle necessità del caso, almeno nella misura che le conoscenze scientifiche dell’epoca lo consentivano. Infatti, già Paolo d’Egina consigliava l’asportazione chirurgica delle ghiandole malate avendo cura di non ledere vasi o nervi di cui la regione del collo è ricca. Invece la Scuola Salernitana, forse perché non all’altezza di proporre delicati interventi chirurgici, preferiva consigliare cure locali a base di bile porcina oppure cataplasmi di fichi. Il famoso chirurgo della Scuola bolognese Teodorico da Lucca era favorevole all’asportazione chirurgica delle ghiandole scrofolose, ma solo se suppurate, per medicarle poi con albume d’uovo, mentre sconsigliava l’asportazione di quelle non suppurate per la sua pericolosità, salvo che questa non fosse eseguita da mani esperte. Il famoso chirurgo francese Guy de Chauliac, pur non disdegnando, in ossequio al re, di cui era medico personale, la pratica della “toccatura“ reale, era sicuramente favorevole all’asportazione della ghiandola con un’incisione “a foglia di mirto”.

Girolamo Fracastoro e la “dottrina del contagio”

Bisogna attendere il XVI secolo per avere una chiara definizione della tubercolosi come malattia contagiosa. Fu Girolamo Fracastoro, padre della “dottrina del contagio” in De contagione et contagiosis morbis”, a impegnarsi in tal senso. La diffusione di questa notizia creò panico fra la gente che prese a trattare gli scrofolosi e i tisici alla stessa stregua dei lebbrosi.

Nel 1699 il consiglio di sanità della repubblica di Lucca dispose la denuncia obbligatoria “delle persone di qualsivoglia sesso e condizione affette da etisia” e nel 1735 dispose l’isolamento e la cura dei tisici, ma ne vietò il ricovero negli ospedali comuni, istituendo luoghi di cura per il loro isolamento. Nel 1753, a Firenze, fu addirittura promulgata una legge che privava quei poveretti di tutti i loro diritti. Franciscus de La Boe (1614-1672), comunemente noto come Sylvius, nel 1671 descrisse i tubercoli polmonari riconoscendovi la stessa natura delle scrofole e attribuì la tisi alla suppurazione dei tubercoli nel parenchima polmonare, con la formazione delle caverne.

Pott sul finire del XVIII secolo (1779-1782) descrisse la malattia che da lui prese il nome senza però riconoscerne l’esatta eziologia. Nel 1761 Leopold Auenbrugger col suo trattato sulla percussione “Inventum novum” schiuse nuovi orizzonti alla semeiologia fisica del torace. Infine nel 1783 Baumes pubblicò il Traité de la phtisie pulmonaire che è la summa di tutte le conoscenze sulla tubercolosi fino a lui.
Un particolare fervore di studi sulla tubercolosi si ebbe nel XVII e nel XVIII secolo in Inghilterra a causa dei numerosi casi della malattia presenti su quel territorio e vi contribuirono autori come Willis, Morton (Richard Morton (1637-1689) fu il primo a dedicare un trattato alla tisiologia nel 1685), Marten, per citarne solo alcuni.
Non vanno dimenticati i notevoli contributi dati da G. B. Morgagni (in De sedis et causis morborum per anatomen indagatis, 1761), il quale descrisse le lesioni tubercolari in via di caseificazione.

Nel 1810 Bayle per primo distinse diverse entità anatomo-patologiche, descrivendo la presenza di tubercoli in altri organi diversi dal polmone, parlando della forma diffusa a tutto l’organismo o “tubercolosi miliare” riconoscendo la tubercolosi come malattia generalizzata.

L’Ottocento e i dibattiti sulla natura del tubercolo

Il XIX secolo fu ricco di dibattiti attorno alla natura del tubercolo e all’inquadramento nosografico della tubercolosi. Mentre il francese Laennec nel 1819 dava un inquadramento nosografico unitario della malattia, per contro il suo avversario Broussais considerava i tubercoli come il risultato di una reazione infiammatoria, perciò non un prodotto specifico.

Louis, supportato da 167 autopsie, dimostrò che i tubercoli erano veramente una produzione specifica, dove l’infiammazione aveva solo un ruolo accessorio (in Recherches anatomo-pathologiques sur la phtisis, 1825 e 1843). Tuttavia Virchow negò la natura specifica del tubercolo e per l’autorità scientifica che rivestiva e la credibilità che ne derivava, con questa sua presa di posizione ritardò l’accettazione di una concezione unitaria della tubercolosi secondo quanto aveva affermato Laennec.
Non mancarono coloro che credettero nel carattere ereditario della malattia, come Linneo, il quale sostenne però anche che la tisi polmonare è causata “da un vero invisibile germe di contagio”. (1740)

Giacinto Laennec (1781-1826), sotto l’aspetto diagnostico, perfezionava quel metodo della percussione toracica che era già stato proposto da G. L. Auenbrugger nel 1761 e da G. N. Corvisart nei primi anni dell’800, dividendo il torace in quindici regioni, consentendo una più precisa definizione degli organi toracici e delle loro patologie. Un ulteriore passo in avanti nella semeiotica toracica fu fatto da Laennec quando inventò il metodo dell’auscultazione mediata con lo stetoscopio, affinando ancora di più la semeiologia degli organi toracici.

La convinzione che la tubercolosi fosse una malattia contagiosa trovava sempre maggiori consensi e a Napoli, nel 1782, Domenico Cotugno sollecitò per questo motivo la promulgazione di una legge sanitaria per la profilassi sociale della malattia, ma due anni dopo re Ferdinando di Napoli, che rifiutava l’idea della contagiosità della tisi, revocò alcune delle disposizioni cautelative già fatte approvare da Cotugno.

Fu necessario attendere la seconda metà del XIX secolo per entrare nella fase sperimentale della malattia in modo di poterne capire tutti gli aspetti etiopatogenetici ed epidemiologici e Jean Antoine Villemin ne fu il pioniere. Il 5 dicembre 1865 Villemin comunicò all’Accademia di Francia che la tubercolosi è effetto di un agente causale specifico, da lui chiamato ”virus” con dati sperimentali alla mano. Egli aveva, infatti, inoculato nel coniglio materiale tubercolare (caseum, escreato, pus linfonodale) di origine umana o animale, ottenendo nell’animale, dopo alcune settimane, lesioni tubercolari, deducendone la specificità della malattia e che essa fosse dovuta ad un agente inoculabile.

Villemin pubblicherà nel 1868 a Parigi il risultato delle sue ricerche in Etudes sur la tubercolose. Preuves rationelles et expérimetales de sa spécifité e de son inoculabilité.
In questa sua pubblicazione Villemin aggiunse anche considerazioni di carattere epidemiologico facendo notare che la tubercolosi era più frequente negli agglomerati urbani più affollati e che nelle regioni indenni come la Nuona Zelanda, l’Australia, l’Oceania, essa fosse comparsa con la colonizzazione europea provocando vere e proprie stragi, aprendo così un capitolo nuovo, quello dell’aspetto sociale della malattia.
Le conclusioni sperimentali di Villemin furono confermate anche da altri studiosi, come Chaveaux, Klebs e Grancher, ma restava il problema, fino allora insoluto, dell’isolamento dell’agente causale non ancora identificato, anche se intuito.
La consapevolezza che la tubercolosi fosse una malattia dipendente anche dalle cattive condizioni ambientali della popolazione e la convinzione che l’aria salso-iodica del mare avesse benefici effetti sull’andamento delle forme ghiandolari tubercolari di tipo scrofoloso, indusse Giuseppe Barellai a fondare a Viareggio il primo ospizio italiano per bambini scrofolosi, nel 1862.

Un notevole passo in vanti nella patogenesi della malattia fu fatto da Jules Parrot, che nel 1878 enunciò la Legge delle adenopatie ilari nella prima infezione, secondo la quale tutte le volte che un ganglio bronchiale è la sede di una lesione tbc. Ad essa corrisponde una lesione analoga nel polmone. Soltanto nel 1912 l’austriaco Ghon verrà a parlare del “complesso primario”.

La tubercolina di Koch

Robert Koch fu chi riuscì a isolare il bacillo tubercolare. Egli usò la colorazione con blu di metilene consigliata da Ehrlich, lo identificò, lo isolò e lo coltivò in siero animale; infine lo inoculò in animali da laboratorio riproducendo la malattia, ottenendo un risultato inoppugnabile.

Il 24 marzo 1882 Robert Koch (1843-1910) comunicò alla Società di fisiologia di Berlino la scoperta del Mycobacterium tubercolosis e lo descrisse così ”Sottile, la cui lunghezza è metà-un quarto del diametro di un globulo rosso, molto simile al bacillo della lebbra, ma più affilato”.

La scoperta del M. tubercolosis aprì la nuova prospettiva di un programma pasteuriano basato sull’attenuazione in laboratorio del germe e sulla ricerca nel siero di persone ammalate di quella malattia degli anticorpi che avessero una funzione curativa.

L’italiano Angiolo Maria Maffucci dal 1886 al 1889 condusse studi sul bacillo tubercolare scoperto da Koch e osservò che nel protoplasma dei bacilli erano contenute le tossine tubercolari (endo ed esotossine).

Nel 1890 Koch credette di aver trovato il mezzo preventivo della tubercolosi in quelle sostanze che egli chiamò “tubercolina”, pubblicandone la base scientifica nel 1891.Egli aveva preparato la sostanza mediante colture in brodo glicerinato di sei settimane, uccise a 100° C., filtrate ed evaporate al decimo. Queste colture si potevano iniettare nell’uomo fino a 0,25 ml., ottenendo sintomi infiammatori al punto di innesto, reazione intensa nel focolaio tubercolare, reazione febbrile elevata.
Ma l’illusione di Koch che la sua tubercolina potesse suscitare una valida risposta immunitaria fu presto delusa. Infatti, l’esperienza clinica dimostrò che il suo uso non era privo di pericoli perché poteva provocare reazioni violente e persino la morte. La stessa cosa valeva anche per la tubercolina purificata, depurata di ogni componente tossica.
Però si era osservato che l’iniezione sottocutanea di tubercolina a persona sana non provocava alcun tipo di reazione, mentre se iniettata a un soggetto già colpito dall’infezione, questa provocava un’intensa reazione. Schick e Von Pirquet denominarono questa reazione “allergia”. La reazione alla tubercolina permetteva perciò di svelare il contagio anche in individui che non manifestavano alcun segno della malattia o che la malattia l’avevano clinicamente superata. Essa manifestò quindi, se non un valore preventivo dell’infezione, almeno un elevato valore diagnostico efficace per capire che le persone che presentavano clinicamente i sintomi della malattia erano soltanto la punta dell’iceberg. La reazione alla tubercolina diventò pertanto lo strumento principale della ricerca epidemiologica a livello veterinario e umano e permise di scoprire che il 34% dei bambini dell’età di 5-6 anni e il 91% di quelli dell’età di 13-14 anni erano positivi al test.

Mentre Koch era impegnato in queste sue ricerche, nello stesso periodo l’italiano Carlo Forlanini s’impegnava su un altro fronte, quello dell’intervento terapeutico sul paziente ammalato di tubercolosi polmonare con una tecnica che in un primo momento apparve un paradosso, visto che il pneumotorace spontaneo era stato visto fino a quel momento come una delle complicanze della tubercolosi polmonare. Inutili si sarebbero rivelati i tentativi di asportazione chirurgica della parte del polmone malato fatti dal chirurgo bolognese Ruggi. Carlo Forlanini propose lo pneumotorace artificiale come mezzo terapeutico della tbc polmonare con sperimentazioni iniziate nel 1882, lo stesso anno in cui Koch scopriva il bacillo agente patogeno della malattia, in un periodo in cui l’era della radiologia doveva ancora avere inizio, perché Roetngen l’avrebbe inaugurata soltanto nel 1896. Gli furono di ostacolo quindi la maggiore visibilità scientifica di Koch e la mancanza di quello strumento di controllo dei risultati che è la radiografia polmonare. Nonostante ciò egli eseguì una serie ininterrotta di esperimenti sugli animali con iniezioni intra pleuriche di diverse sostanze liquide e gassose; fece numerose e continue modificazioni dello strumentario per renderlo perfetto e di semplice uso; fece indagini anatomopatologiche e microscopiche e ricerche sulle lesioni della pleura.
Forlanini fece conoscere i risultati del suo nuovo metodo di cura della tubercolosi polmonare al Congresso di Medicina Interna tenutosi a Roma nel 1894, ma soltanto nel 1912, al Congresso Internazionale sulla tubercolosi tenutosi sempre a Roma, egli ebbe il riconoscimento completo del suo metodo da parte dei tisiologi di tutto il mondo, quando già dal 1906 anche in Francia il suo allievo Dumarest dava inizio a questa tecnica terapeutica diffondendone rapidamente l’uso nel suo paese.

Tubercolosi e vampirismo

Prima della Rivoluzione Industriale, la tubercolosi era talvolta associata al vampirismo. Quando un membro di una famiglia ne moriva, gli altri membri avrebbero iniziato ad ammalarsi lentamente. La gente credeva che questo fosse causato dalla vittima originale, che succhiava la vita dagli altri membri della famiglia. Inoltre, persone che avevano la TBC mostravano sintomi simili a quelli che le persone reputavano essere tratti vampirici. Le persone che soffrono di tubercolosi hanno spesso occhi arrossati e gonfi (che a sua volta causa sensibilità alla luce intensa), un colorito pallido e tossiscono sangue, suggerendo che l’unico metodo per ripristinare questa perdita di sangue era succhiarlo da altri. Un’altra credenza popolare attribuiva la Tubercolosi all’essere costretti, di notte, ad attendere alle feste delle fate, così che la vittima veniva consumata dalla mancanza di sonno; questa credenza era molto diffusa quando si trovava un grosso collegamento tra le fate e i morti. Allo stesso modo, ma meno comunemente, la tubercolosi era attribuita all’essere cavalcati dalle streghe; trasformati in cavalli dalle streghe per portarle ai loro raduni, le vittime subivano di nuovo la mancanza di sonno.

Tisi e romanticismo

La TBC venne romanticizzata nel diciannovesimo secolo. Molte persone credevano che la tubercolosi causasse sensazioni di euforia definite come “Spes phtisica”, o “speranza del consunto”. Si pensava che le vittime di TBC che erano artisti avessero scoppi di creatività mentre la malattia progrediva. Agli inizi del ventesimo secolo, alcuni credevano che la tubercolosi fosse causata dalla masturbazione. Fra i numerosi letterati, artisti e musicisti morti di tisi, quasi tutti in giovane età, si ricordano Giovanni Boine (1887-1917), Emily Bronte (1818-1848), Fryderyk Chopin (1810-1849), Anton Pavlovič Čechov (1860-1904), George Orwell (1903-1950), Sergio Corazzini (1886-1907), Giuseppe Giusti (1809-1850), Guido Gozzano (1883-1916), Giovanni Battista Grazioli (1746-1820), Jens Peter Jacobsen (1847-1885), John Keats (1795-1821), e Giovan Battista Pergolesi (1710-1736). Al contempo, la passione per le storie d’amore e morte ha portato alla celebrità personaggi di poesie, romanzi e opere, morti di tisi, quali “Silvia” di Giacomo Leopardi, la Signora delle camelie di Alexandre Dumas, la Violetta della Traviata di Giuseppe Verdi, la Mimì della La Bohème di Giacomo Puccini e il piccolo Ilju dei I fratelli Karamàzov di Dostoevskij.

Il “mal sottile”, morbo del secolo

“Matilde / figlia di Alessandro Manzoni / qui riposa / spenta dal lento morbo / il XXX marzo 1856 / nell’ultimo anno del quinto lustro / lasciava desiderio di sé / per una vita bella di tante virtù / che sublimarono il sesso”.

Nell’epigrafe scritta dall’autore dei Promessi Sposi, c’è il topos del lamento per la crudeltà di un male – la tubercolosi nella sua forma polmonare – che falciava giovani vite piene di promesse. Nessuna malattia ha connotato così strettamente la storia di un’epoca come la tisi. Rivelatasi come malattia emergente all’indomani dell’Unità, ha incrociato l’urbanizzazione e l’industrializzazione, ha sfidato “le forze congiunte della clinica e dell’igiene”, ha influenzato la letteratura, alimentato “l’ossessione della degenerazione”, messo alla prova la capacità dello Stato di mettere in campo politiche adeguate a far fronte alla ” lebbra dei tempi moderni”.

Nell’Ottocento, sotto il nome ‘mal sottile’ o ‘mal di petto’, la tubercolosi costituì il morbo del secolo, portando a morte, oltre a milioni di persone, musicisti come Chopin, poeti come Alfred de Musset, forse Giacomo Leopardi, di sicuro il toscano Giuseppe Giusti… Il poeta e letterato tedesco Wolfgang Goethe, dato per spacciato a causa della Tbc appena uscito dall’adolescenza, visse invece fino a 83 anni! Malattia sociale per eccellenza si alimentava oltre che delle vecchie ingiustizie tra le classi anche di quelle acquisite dalla recente rivoluzione industriale: l’urbanesimo e i suoi guasti; uno sfruttamento forsennato della classe operaia in fabbrica; gli orari di lavoro interminabili; le donne e fanciulli schiavizzati giorno e notte alla macchina in ambienti insalubri.

Vera e propria pandemia, la tubercolosi non poteva che rendersi largamente visibile nella letteratura dell’Ottocento, un secolo che dalla vita e dalla realtà del suo tempo trasse più di un robusto motivo d’ispirazione. Inoltre, per il perenne stato febbrile che la malattia determina, per l’apparizione del sangue, per l’esito spesso letale, tale morbo sembrava stabilire intense consonanze con il sentire romantico proprio del secolo. Questi i principali motivi che possono spiegare la sua marcata letterarietà lungo tutto il secolo XIX e oltre.

“Da chiuso morbo combattuta e vinta”. Dalla Silvia di Leopardi alla Maria di Fede e Bellezza di Tommaseo

È Giacomo Leopardi ad offrirci in uno dei suoi testi più famosi, A Silvia, una prima, indimenticabile immagine poetica indissolubilmente legata alla tubercolosi: ”Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi…”. I versi leopardiani sono del 1828. La ‘tenerella’, com’è noto, è Silvia, nome letterario di derivazione tassiana di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, uccisa in giovanissima età da quel’chiuso morbo’ che possiamo senz’altro identificare con la tubercolosi. E come morì Silvia, così perirono le illusioni e le speranze giovanili del Poeta.

Pochi anni più tardi, nel 1840, è pubblicato Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo (1802-1874), letterato, scrittore e poeta coerentemente romantico. Il romanzo narra la storia di Giovanni e Maria, due personaggi incerti, contraddittori, tormentati. Unitisi in matrimonio dopo esistenze fitte di delusioni, i due sembrano trovare finalmente una qualche serenità. Fino a quando “Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule; egli trepidando gliela prende, la trova intrisa di sangue e mette un grido.” La tubercolosi non perdona e Maria morirà dopo sofferenze che, secondo l’ideologia romantica ben espressa da Tommaseo, purificheranno sia lei, dopo una vita che non ha escluso il peccato, sia Giovanni che ne condivide il calvario: “Il male ripigliava con furia: le febbri talvolta la levavan di sé; e nel delirio vedeva cosa pietose, e quando liete, ch’erano più di tutte pietose a sentire. La notte del dì ventun dicembre vaneggiò lungamente. Il dì ventidue peggiorò.”

Dalla signora delle camelie alla  traviata

Ma è un romanzo francese, La signora delle camelie pubblicato nel 1848, a sancire il definitivo successo letterario a dimensione europea del ‘mal sottile’. Ne è autore Alessandro Dumas figlio (1824-1895) che nel contesto della vita mondana parigina d’alto bordo, propria degli anni che precedono il ‘48 rivoluzionario, colloca la vita, gli amori e la morte per tisi di Maria Duplessis, tormentosamente amata dallo stesso Autore. Lo straordinario successo di pubblico di questo libro in Francia e fuori dalla Francia doveva ripetersi tre/quattro anni più tardi, quando la censura governativa concesse che quelle vicende venissero rappresentate anche a teatro.

La Traviata è la terza e ultima opera di quella che è definita la “trilogia popolare” di Giuseppe Verdi e come succede nel Rigoletto e ne Il trovatore, la figura del protagonista domina su tutte le altre.

Già all’inizio degli anni Cinquanta Verdi stava cercando una cantante adatta a un ruolo difficile, e comunica al direttore della Fenice di Venezia Carlo Marzari, di aver bisogno di una “donna di prima forza”. Il soggetto che esigeva una cantante così speciale era stato tratto da Verdi da un dramma molto discusso di Alexandre Dumas figlio. La dame aux camélias è la storia di un personaggio realmente esistito, Alphonsine Duplessis giovane cortigiana che si era data al vizio nella Parigi degli anni Quaranta e che era entrata anche nella vita di Dumas da lui trasformata nel dramma in Marguerite Gautier. Verdi assiste a una rappresentazione teatrale del dramma a Parigi nel 1851.

Già nel 1852 il libretto di Francesco Maria Piave è pronto col titolo di La Traviata, ma la censura ne impone il cambiamento in Amore e morte e un’ambientazione non contemporanea ma spostata indietro tempo di almeno un secolo. Il 6 marzo del 1853 sul palcoscenico del Teatro la Fenice di Venezia l’opera riscuote un clamoroso insuccesso da attribuire a numerosi fattori: i cantanti sono inadatti alle parti, compresa la protagonista che non era certo una “donna di prima forza”, l’ambientazione contemporanea voluta da Verdi a tutti i costi, ma non apprezzata dal pubblico; l’audacia del soggetto e la novità della partitura.

Solo un anno dopo però, presentata al Teatro San Benedetto, sempre a Venezia, l’opera riscuote successo, grazie al cast di cantanti e all’ambientazione settecentesca che assecondava i gusti del pubblico del tempo.

 “Mal di petto” e Scapigliatuta

Anche gli Scapigliati, che spesso e volentieri dalla metà dell’Ottocento si compiacquero di un’estetica del brutto e del macabro, usarono spesso la tisi come motivo ricorrente della loro ispirazione. Valga per tutti questi letterati ‘ribelli’ la Lezione d’anatomia di Arrigo Boito (1842-1918):

“La sala è lugubre / Dal negro tetto / Discende l’alba, / Che si riverbera / Sul freddo letto / Con luce scialba. /Chi dorme? Un’etica / Defunta ieri / All’ospedale; / Tolta alle requie / Dei cimiteri, / E al funerale: / … / … / Delitto! e sanguina / Per piaga immonda / Il petto a quella! / Ed era giovane! / Ed era bionda! / Ed era bella!”

La bohème

La consacrazione artistica della tubercolosi doveva, però, realizzarsi definitivamente negli ultimi anni del secolo con la rappresentazione dell’indiscusso capolavoro pucciniano, La bohème (1896). La gelida manina del primo atto e i colpi di tosse che squassano Mimì nel secondo preparano il patetico finale della morte per consunzione da ‘mal sottile’: tutta l’opera ruota attorno al tema della malattia incurabile e allo straziante crescendo degli accenni, dei segni, dei sintomi che la evocano continuamente in tutta la sua fatalità. Come sempre, amore e morte funzionano. Aggiungeteci una Parigi come la immaginavano e vagheggiavano i piccoli borghesi di tutt’Italia, la grande musica del compositore lucchese e il gioco è fatto. Ma la protagonista vera della Bohème non è Mimì: è la tisi.

“M’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro”. La tisi dei crepuscolari

I poeti crepuscolari, proprio per la loro particolarissima sensibilità poetica (percezione dello svanire delle cose, sentimento malinconico dell’amore, il pensiero e il desiderio della morte non intesa eroicamente ma ironicamente) si ispirarono spesso al ’mal sottile’ anche per motivi autobiografici: di tubercolosi muore nel 1907, a neppure ventun anni, Sergio Corazzini (1886-1907), romano, una delle voci più capaci di esprimere la ‘pena di vivere’ propria di questa generazione di letterati. Corazzini nei suoi versi racconta la vita in un sanatorio dell’Alto Adige, in una località chiamata Toblack. Qui i malati attendono la morte, tema ossessivo e incombente delle loro giornate e dell’ispirazione del poeta:

… E giovinezze erranti per le vie / piene di un grande sole malinconico / portoni semichiusi, davanzali / deserti, qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale / al passare di ogni funerale, / un cimitero immenso, un’infinita / messe di croci e di corone, un lento / angoscioso rintocco di campana / a morto, sempre, tutti i giorni, tutte / le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno / di speranza e di consolazione, / un cielo aperto, buono come un occhio / di madre che rincuora e benedice. (Toblak)

Malato di tubercolosi polmonare è il caposcuola dei Crepuscolari, Guido Gozzano (Torino, 1883-1916). La malattia gli è diagnosticata nell’aprile del 1907, quando il poeta ha solo ventiquattro anni ed ha appena pubblicato la sua prima raccolta di versi, La via del rifugio. Da allora quel male e la morte prossima ventura diventeranno temi ricorrenti dell’ispirazione di Gozzano che non rinuncerà a coniugare ironicamente il tema della sua infermità, prendendo garbatamente in giro – com’è nelle corde della sua poesia- i medici che pretendono di curarla:

“Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni, / m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro. / E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo? / Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.” (Alle soglie)

Anche il motivo del viaggio, caro ai poeti del Decadentismo, è riproposto in chiave crepuscolare e legato alla malattia:

“…Dove andrò? Non so… Viaggio, / viaggio per fuggire altro viaggio. / Oltre Marocco, ad isolette strane, / ricche in essenze, in datteri, in banane, / perdute nell’Atlantico selvaggio.” (La signorina Felicita ovvero la Felicità)

Tutta l’esistenza di Gozzano e tutta la sua poesia sono profondamente segnate dall’esperienza del ’mal di petto’, che diventa la ’cifra’ stessa della vita del poeta:

“Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, / se già la Signora vestita di nulla non fosse per via”. (L’ipotesi)

Guido Gozzano, “ricusando sempre il clamore della disperazione, il dramma luttuoso dello sconforto, s’incamminò invece verso la morte con le mani in tasca, sorridendo di quel vago sorriso leggero, con la stessa naturalezza con cui andò incontro al suo successo eccezionale” (Comolli ), morì il 9 agosto 1916. Dopo quasi dieci anni d’attesa e di rimandi era arrivata “la cosa/vera chiamata Morte.”

BIBLIOGRAFIA

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Clark Lawlor, Consumption and Literature, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007.

Frank Ryan,  The Forgotten Plague: How the Battle Against Tuberculosis Was Won — and Lost, Boston, MA, Little, Brown and Company, 1993 . Pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna col titolo Tuberculosis: The Greatest Story Never Told.

Attilio Omodei Zorini  e B. Mariani, Terapia e profilassi della tubercolosi, capitolo 2 “Vaccinazione antitubercolare” di M. Lucchini e G. Spina, Torino, Minerva Medica, 1971.

Antonio Semprini, storia della tubercolosi su PediatriaOnLine, dott. A. Semprini

V.A.. Sironi,  Le officine della salute. Storia del farmaco e della sua industria in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1992.

Antonio De Lisa

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Categorie:A00.14- Studi di medicina visuale e simbolica

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