Che cosa intendiamo per “Fenomenologia della letteratura”
La Fenomenologia è una precisa corrente filosofica che ha avuto diverse flessioni nel corso della storia filosofica. Quelle più importanti sono di Hegel (“Fenomenologia della spirito”) e di Husserl. Noi la intendiamo nell’accezione di Husserl. La distinzione da fare per inaugurare il discorso è quello tra presentazione propria e impropria di un ente. Una presentazione propria è possibile solo quando si ha accesso all’oggetto presentato in maniera diretta, quando è attualmente presente. Una presentazione impropria si ha quando questo non è possibile, e bisogna ricorrere a maniere indirette, come segni, simboli, descrizioni, etc., i quali costituiscono una presentazione indiretta ed impropria.
E’ facile capire che volendo parlare di poesia la presentazione propria si riferisce alla sua dimensione linguistica, quella impropria ai simboli che essa evoca. Si potrebbe obiettare che la poesia sia intrinsecamente simbolica e nessuno lo nega; si vuole solo affermare che la dimensione simbolica scaturisce direttamente da quella linguistica.
E’ da qui che bisogna partire per analizzare la poesia, così come bisogna partire dalla teoria del colore per analizzare la pittura o la teoria della musica per analizzare la musica. Stiamo parlando del livello che la corrente dello strutturalismo ha definito la struttura propria delle arti e la semiotica ha elevato a terreno fondamentale di analisi.
Queste varie teorie hanno avuto il merito di far parlare direttamente i testi, ma il testo parla perché è intenzionato a parlare dalla coscienza di chi lo elabora, non è un’entità a se stante nel cielo delle pure forme.
Gli sviluppi recenti della Fenomenologia hanno anche un altro merito, quello di aver aperto il confronto con la filosofia della mente, con la filosofia del linguaggio e con quella dell’intelligenza artificiale, studiando come gli oggetti appaiano in un orizzonte di esperienze possibili ed anticipate, e come questo influenzi la nostra percezione e interazione con il mondo.
Non è questa la sede per discutere i vari approcci teorici. Stiamo solo delineando la cornice dentro la quale si situano questi scavi e sondaggi analitici su alcune raccolte poetiche contemporanee.
In che modo possiamo far parlare i testi? Analizzandone le strutture profonde dal punto di vista linguistico-retorico. L’esperienza umana (l’orizzonte dell’esperienza umana) ha fornito un ampio spettro di corpora poetici su cui si basa l’ulteriore sviluppo della poesia. Ogni autore rinnova il repertorio attingendo da quello costruito prima di lui. Ma ogni autore lascia l’impronta di una nuova esperienza. Abbiamo scelto per l’occasione raccolte che presentano uno spettro abbastanza ampio di problematiche poetiche.
L’idioletto di Sanguineti
La raccolta di poesie di Edoardo Sanguineti, Varie ed eventuali (Poesie 1995-2010), Feltrinelli, Milano 2010, Postfazione di Niva Lorenzini, è costituita da un corpus iniziale di poesie che vanno dal 1995 al 2006, con l’eccezione della prima, che risale al 1949 (Frammenti da “Invenzione di Don Chisciotte”), da una sezione intitolata “Mantova, 13.9.6”, da un “Omaggio a Duerer” (14 sonetti, marzo 2007), seguito da un altro breve corpus e infine dalla sezione “Nove filastrocche per Luca” (febbraio 2010). E’ definito in questo modo l’ultimo quindicennio dell’attività poetica di Sanguineti.
Una delle cose che risaltano con maggiore evidenza è il dialogo ideale che il poeta genovese intrattiene con i testi e le persone che hanno rappresentato momenti forti della sua esperienza di vita. Lo si nota dalle dediche e dagli omaggi: per esempio al compositore ligure Luciano Berio, cui sono dedicati diversi testi, a Pagliarani a Carol Rama e così via. Su un altro piano l’omaggio si svolge in forma di “imitazione” (con una vera ironica) , per esempio “Due imitazioni di José Saramago”, “Due imitazioni da Pablo Neruda”.
E’ tutto un tessuto dialogico di istanza profonda cui non è sempre facile tenere dietro e forse non è nemmeno necessario. A un livello più superficiale Sanguineti intrattiene un dialogo con i propri lettori di ieri e di oggi, con allusioni e riferimenti di diversa natura e consistenza, come a disegnare e a rappresentarsi con loro un’intera carriera poetica durata più di cinquant’anni.
Da un punto di vista formale sembrerebbe di assistere al recupero e al reintegro di diverse forme chiuse della tradizione, come per esempio il sonetto, com’era già avvenuto perlomeno dalla metà degli anni ottanta in poi; ma se ci si lascia distogliere da questo dato si rischia di non cogliere appieno la portata ancora una volta innovativa dell’opera sanguinetiana.
Le forme sono scavate e plasmate all’interno da una felicità inventiva, propriamente della lingua e sulla lingua, che emerge con piena evidenza lungo tutto il corso della raccolta, che raggiunge in alcuni casi effetti irresistibili. Il gioco sulla lingua, sulle parole della lingua e sui loro nessi, si unisce a quello delle ricorrenze o dei contrasti fonici, come le assonanze, le allitterazioni, le rime in un impasto che non si può definire in nessun altro modo (come per esempio espressionista, materico o altro) se non come “sanguinetiano”. Sanguineti suona infatti tutta la tastiera delle potenzialità della lingua italiana, con rarissimi innesti estranei, praticamente reinventandola, riplasmandola in un personalissimo “idioletto”.
Proviamo a fare qualche esempio scandagliando i testi come in una specie di prospezione. Evidentissima è la deformazione o reinvenzione pre- e suffissale di nomi ed aggettivi. Il campionario è sterminato, e attraversa tutta la raccolta nelle sue varie sezioni- tra parentesi il titolo della poesia:
(Tre quartini d’olio d’oliva in forma di quartine): strafatte, extravergini, traslucide, sempreverdi, semprecelibi, neobacchici;
(Vinovino): neoneoagrituristici;
(Votabene!): arcirevisionistica, benitoberluschi, estremocomunisti;
(Per il novissimo Pagliarani): presbipoeti, arciobsoleti;
(Polittico Baj): megacranico, emimammelle, ipoderma, ipoinfernali, supermaschietti;
(Il y a): semirosa;
(Bestialissimo sonetto solstiziale): deuteroagnello;
(Tre sonetti verdi): iperdisfatti;
(Tre crani): straconcetti, endoevoluti, emisferico, arciplanante, superorbitali;
(Duplex): microsgocciolìo, nanozampirone;
(Fermo in posta): semipazzo;
(Scoazna): ovosfera;
(Oppio): serpentiformi, ipersterili, tecnoriproducibili;
(Scrabble): metagramma, metaplasmo;
(Petite phrase): multi mediatiche, multi tematiche, macromodali;
(Quattuordecim disticha nespolica maritima): supervinili;
(Monorima monoritmica berluscocchiesca): ipercavalocchio;
(Sette terzine cosmochaotiche): hypocristi, ipernazistici, polipervertita, neonarcisi, arcilupanaresco, ultrultrultrultrultrosi;
(Somatopsicomachia): quasiemiporno;
(sonetto del rebus sonoro): semiumanizzata;
(Mantova- 9): postumano;
(Sonetto della chimera): hyperhysterici, infraomerici;
(Sonetto del foglio volante): acroaquilotto, iperdotato;
(Clowntherapy): maximedicante;
(M4): ipercostante;
(M6): supercontratto;
(Capriccetto per g.v.): postmodernprovinciali;
(Quintettino): megamicro, ipersupernano;
(Enueg per Cenne): neomostri, omiroporno, metaporno;
(La ballata della malaventura): postumani;
(Ballatella delle sirenelle): superputtane, miniputtane, lapmicrosottane;
(Ottava dell’acquario): ipopolpi, iperdelfine;
(Sonetto astrale): supergiganti, ipercompresse;
(Teatro): overumana, pluripresenza;
(Similsonetto speculare): emizampe, ecodopplerizzando.
I nomi possono poi subire una flessione accentuativa o più spesso diminutiva che li ridisloca semanticamente all’interno del contesto: soldini, troiettone, eridanoidi, bove cornutello, fantasmino, bambinella, pupazzetti, operina, montagnette, granchietto, testicolino.
Anche gli aggettivi partecipano a questa reinvenzione del linguaggio: il mare è “uraganato”, per esempio; e spesso si pongono tipicamente a coppia: “groppo odioso, ozioso”; “io deliro, inquieto, ansioso”; “virtuale narcisino”; “ti cullerò: dolce, amoroso”; “vociferante, arrogante, è un gigante”; “da te mi congedo, acceso e arsiccio”; con effetto di risonanza.
Il virtuosismo linguistico si esplica in pieno poi con i verbi: “sindonizzo il mio corpo”, “mi ironizzo”, “inesisto in eccesso”, “mi acrobato”, “fa rosolacciare”, “si scekeravano”.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma questi ci sembrano che possano bastare per dare conto dell’inesauribile invenzione sanguinetiana, che si pone come un risultato che illumina un intero quindicennio di poesia italiana.
Abbiamo notato, lo si è detto ma su questo non abbiamo voluto calcare la mano, al tono di lascito che percorre la raccolta. Uno sguardo all’indietro sulla propria vita, ma senza lacrime e con robusta ironia. Forse è facile dirlo adesso che il poeta non c’è più, ma è talmente evidente che lo si sarebbe potuto dire anche se il poeta fosse stato ancora in vita.
Nel corso della raccolta Sanguineti allude più volte alle sue esperienze e a quelle della neo-avanguardia dei Nuovissimi e del Gruppo 63. Per esempio in “Per il novissimo Pagliarani”: “epigrammi, esercizi, auto epitaffi: / lavoriamo così, presbipoeti: / invecchiamo così, nel vecchio vizio, / ostinati beati arciobsoleti”. Disegnando infine un proprio personale “Epilogo”. Una parola terribile, se non fosse stata detta da lui medesimo. Ma non si può chiudere con nessun’altra parola:
Epilogo, ovvero sonetto
posso anche, caro mio, chiudere in versi
spiegando che si illude, per sedurre
(e molto ci si illude) con diversi
accorgimenti: vedi che ridurre
a tutto si può un niente (con perversi,
come noi, poliformi) onde condurre
il tutto a un niente (e qui, bene conversi
e convertiti, è possibile addurre
esempi, i favorevoli, gli avversi,
senza fine, onde, quindi, indurre e abdurre
abducendo, inducendo, i presi, i persi
che noi saremo: e aiuto, occurre, accurre!)
lunga è la storia, e me, qui, mi congedo:
io ho detto e molto e poco, forse, credo:
Edoardo Sanguineti- Varie ed eventuali, (Poesie 1995-2010), con una Postfazione di Niva Lorenzini, Feltrinelli, Milano 2010.
Il buio dei cortili di Milo De Angelis
L’ultima raccolta poetica di Milo De Angelis, Quell’andarsene nel buio dei cortili, è divisa in cinque sezioni: “Alfabeto del momento” (13 testi), “Finale d’assedio” (11), “Un’oscura sete” (9), “Sei perduto” (9), “Canzoncine” (15). Cinquantasette componimenti. La raccolta fa seguito all’intenso Tema dell’addio, del 2005. E con quello esibisce somiglianze ma anche molte differenze.
La prima cosa da notare, come è sempre possibile nei testi poetici di De Angelis, è l’accorta strategia delle parole ricorrenti, che costituiscono la trama dei simboli dell’autore, ma anche una guida per il lettore attento. La prima parola significativa è “notte” (“A volte, sull’orlo della notte, si rimane sospesi”).
Già il primo testo detta il segnale. Segue con: “la mia notte nella tua”, “Ecco l’acrobata della notte, il corpo”, tutti versi presenti nella prima sezione. Anche nella seconda sezione troviamo un “La notte esce dalle mani”. La ritroviamo nella quarta sezione: “… vedi questa / notte dei citofoni muti”. E nell’ultima: “nel buio senza notte”.
Semanticamente correlato alla notte è la parola “buio”. Compare subito, nella seconda poesia: “E il mondo / sembra un’eco della frase / che non trovano più, caduti nel buio”. E ancora: “Era buio. Il centro di agosto era buio”. In questo testo compare tre volte. La notte è poi variata nella “sera”: “potete vederli, di sera, verso le tangenziali”, “Chi parla nella sera?”.
Organizzata la dimensione temporale, troviamo poi quella spaziale. La parola più importante in questo contesto è “stanza”: “Ma anche tu / sentirai nella stanza sigillata”, “E’ qui, in un angolo della stanza, scocca”, “alla radice / di una stanza e di una donna”. In quest’ultimo verso compare anche la deuteragonista, che spesso è attesa in quella stanza, la donna, appunto. E ancora: “escono da quella stanza”, “e quella stanza era un suono”, “esule nella sua stanza” e così via. Ma non meno importante è un “portone”, col suo “citofono”: “Fermalo. Il portone sta fuggendo”, “Il citofono è acceso. Il gesto si aggrava”, “Questo citofono brilla”, “Il citofono chiede ancora / la tua voce”, “Vedi questa / notte dei citofoni muti”.
Queste parole-segnali evocano e danno concretezza a una storia intimista e dolente, tutta giocata sull’assenza. Ma offrono dei punti di riferimento spazio-temporali in un linguaggio poetico che è volentieri metaforico, analogico, allusivo. Nei testi sono raccontate delle micro-storie, ma di scorcio e spesso non si riesce a capire ciò di cui si parla se non a una seconda o terza lettura. L’autore vela, nasconde, come in questo verso: “Vicina all’anima è la linea verticale”. Questo insistito lirismo metaforico è però tramato al suo interno da precise situazioni esistenziali.
Se proviamo ad osservare la dinamica delle ricorrenze foniche, possiamo costatare il particolare accorgimento che ha sempre caratterizzato, con più o meno evidenza, la poesia di De Angelis. Prendiamo ad esempio questo testo:
Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra.
I primi quattro versi sono tutti in enjambement (“sono”, “hanno”, “sono usciti”, “e ora”) con il verso chiaramente ripartito in due emistichi, a due o quattro sillabe il breve emistichio finale dopo la pausa (le virgole) o la congiunzione. Al quinto verso troviamo una tripartizione, tre emistichi (“potete vederli – di sera, – verso le tangenziali”), e l’ultimo verso scorre senza cesure.
E’ uno stilema tipico di De Angelis, il ritmo interno dei suoi versi poetici, la musica della sua metrica personale. Non ci sono rime in fine di verso, le ricorrenze foniche sono tutte all’interno, tra gli emistichi iniziali dei versi secondo, terzo e quinto e in assonanza (terra, trema, sera) e connotano semanticamente la tonalità del testo, suggerendo al lettore un’ermeneutica secondaria, interiore, sotterranea. Quando sono presenti le rime, sono rigorosamente all’interno dei versi (“…sono brandelli / di un’estate. La vecchia / … / con le ginocchia macchiate di catrame”).
Un particolare stilema sintattico che mi sembra utile porre in evidenza è il non infrequente ricorso alle interrogative: “Cosa attende da me? Dove batte / il cuore dei perduti?”; “Chi parla nella sera? Chi preme / ancora questo citofono? / Cenere dei camion, in quale labbra vuoi posarti?”; “Cosa hai chiesto?”; “Tu dov’eri? Ti aspettavo / … / Dov’eri? Io ero lì, ero”.
Dal quadro che abbiamo sommariamente delineato sembrano scaturire delle linee di tendenza. Grande accortezza a organizzare storie di vita con un linguaggio poetico “alto”, maestria nella tessitura poetica (le parole-segnale, le ricorrenze foniche), una volontà di celare e rendere manifesti piccoli segnali di lettura, ma anche talora vertiginose astrazioni liriche o liricizzanti. Mi verrebbe una definizione da usare, che provo a scrivere, ma che forse è un tantino esagerata. E’ noto che De Angelis è fautore da sempre di quella che è stata definita “parola innamorata”, ma negli anni ha declinato questa espressione nei modi più vari. Che sia approdato ora a quella particolare dimensione della “parola innamorata” che sfocia in un aperto neo-ermetismo?
Milo De Angelis, Quell’andarsene nel buio dei cortili, Mondadori (Lo Specchio), Milano 2010.
“Conglomerati” di Andrea Zanzotto
“Conglomerati” di Andrea Zanzotto (Mondadori – Lo Specchio, Milano 2009) si compone di otto sezioni: “Addio a Ligonàs” (due sottosezioni), Tempo di roghi”, “Fu Marghera (?)” (due sottosezioni), “Il cortile di Farrò e la paleocanonica” (tre sottosezioni), “Fiammelle qua e là per i prati” (di sole tre poesie), “Isola dei morti- Sublimerie” (quattro sottosezioni), “Versi casalinghi” (due sottosezioni), “Disperse” (due poesie).
Le sezioni e le sottosezioni sono così folte e le poesie ivi contenute di numero così ridotto (negli scomparti più affollati al massimo ne troviamo otto) che è difficile parlare di un piano strutturale. La struttura certo c’è, ma si tratta piuttosto di cambiamenti di umori e situazioni che di un piano congegnato in senso architettonico. Lo stesso impianto complessivo sembra essere un “conglomerato”, come recita il titolo della raccolta, o un insieme di “conglomerati”. Lo stesso poeta avverte che “tre asterischi a pagina nuova all’interno delle sezioni hanno la funzione di indicare un cambiamento di luogo, di tempo o di argomento. Uno o più asterischi posti sopra una poesia ne segnalano la minore o maggiore distanza rispetto al gruppo in cui è inserita”.
L’altro elemento che balza all’occhio è la presenza di più versioni di una stessa poesia, come è il caso di “Crode del Pedrè- buio umido piogge alla sera”, che viene esibita in due versioni e di altri casi, come un esercizio di variantistica interna.
Già al primo impatto, nella seconda metà della prima poesia (“Addio a Ligonàs”), intitolata “Rio fu”, troviamo alcuni elementi caratteristici di Zanzotto, come quello del paesaggio, ma rielaborati e rifusi nel senso del degrado paesaggistico: “La contrada, già Zauberkraft, / povera, sul nulla si equilibrava, volava: / ora con qualche soldo in più / piomba giù”. Basta rinominare le strade (“via Alzeimer”, “via Catarro”, “via Borderline”) per accentuarne il carattere di vecchiaia, tristezza, nevrosi, depressione.
Un altro elemento caratteristico dell’ultimo Zanzotto, a partire da Idioma, che qui viene conservato, è l’inserzione plurilinguistica (“Zauberkraft”, “inter quos ego”) che sembrano allontanare a prima vista il lettore, ma in realtà lo spingono a un più diretto contatto con la materia trattata (“via Borderline / (inter quos ego)”) – come a dire, via Borderline nella quale io stesso mi trovo. Si è spesso indicato in Zanzotto un poeta “difficile”. Certo lo è, e vedremo in che senso, ma qui è di una evidenza espressionistica. Nel paese degradato vive il poeta e ne osserva la multietnica decadenza, non senza alludere alla sua stessa decadenza e rovina.
Subito dopo, il Soggetto che fa poesia, il poeta, in veste di Soggetto che osserva più che di “io” in versione lirica, ripercorre il suo paesaggio consueto, per poi riprendere il suo sguardo sull’oggi (“Inciampando nel 3° millennio e nell’equinozio di primavera oltre ogni decibel kitsch estasi del kitsch”). Da qui capiamo l’elemento di diversità del poeta d’oggi rispetto al poeta delle raccolte precedenti.
Qui Zanzotto si fa poeta del degrado contemporaneo, in versione paesaggistica e storica. Lo fa con i suoi strumenti e stilemi consueti, non certo alla Pasolini, per intenderci, ma la sua riflessione poetica è acuta e pungente (“Nell’anno dei vermi / dei vermi dei vermi e dei vermi / e del loro torpido e livido banchetto / improvvisamente svelato quasi al mille per mille / tacciono tacciono i mercatini / il mercatino così gremito di riccioli / giovani genti e voci / così – forse troppo infrondato da suoni / il mercatino sprofonda lento, ora, di ora in ora / in un silenzio / nuovo inaudito e ora udibile / basso silenzio, sottorigo di silenzio / Voci si odono rade nel gelo…”, “Silenzio dei mercatini I”).
Il paesaggio ha perso i suoi tratti di accogliente rifugio nel placare ansie e timori per rendersi irriconoscibile a chi lo attraversa come in un ininterrotto monologo interiore. Lo stesso frantumarsi e accavallarsi dei versi è la resa di uno sguardo sfaccettato e molteplice. Ma nel tessuto inquieto troviamo zone di calma in cui si dispiega tutta intera la riflessione del poeta sull’oggi:
Sulle ali di pipistrello dell’informazione
Corre e scorre e fa spaventi
L’anima torva del simbolico,
del denaro simbolico.
Da un punto di vista generale si possono notare anche in quest’ultima raccolta i tratti così egregiamente segnalati da Stefano Agosti nel saggio introduttivo al “Meridiano” Mondadori dedicato a Zanzotto nel 1999: “Le poesie e prose scelte”. In particolare mi riferisco all’uso del cosiddetto “petèl”, “la lingua con cui le madri si rivolgono agli infanti nel tentativo di imitarne la parlata, diciamo la ‘sintassi sonora’”. Questo “balbettìo allitterante” è presente in larga misura anche in questo libro, ma meno nelle prime sezioni, dove urge la materia “storica” e più nelle successive. Per materia “storica” intendo la declinazione memoriale delle esperienze partigiane del poeta.
Si veda per esempio “Roghi (1944-2001)”: “E dall’alto vedendo / i roghi di interi villaggi / da un alto che non ci proteggeva / da un alto che ci abbandonava / roghi roghi ça ira ça ira, con Toni / semiubriaco, urlavamo / nel buio attraverso il bicchiere: / Kot mit uns Kot mit uns / facendomi paroliere / mettevo in bocca in bocca all’incendiario”. Il paesaggio veneto di oggi è visto nel suo degrado odierno ma anche attraverso la memoria del passato, in particolare dell’esperienza partigiana.
Quando si parla della poesia di Zanzotto è giocoforza soffermarsi sull’uso della lingua, rilevandone i caratteri di “petèl”, plurilinguismo (con inserzioni dal tedesco e dal latino), uso del dialetto. Come ha scritto Fernarndo Bandini in un saggio introduttivo alla già citata raccolta dei “Meridiani” in Zanzotto il predominio del significante, l’asemanticità, è “un episodio che si verifica all’interno del testo e si rende visibile proprio per il suo contrastato porsi in prossimità di parti poetiche dominate dal significato, e comunque di una incessante, anche se latente, ricerca del significato”.
Zanzotto si è avvicinato come non mai al concreto contenuto della parola proprio in quest’ultima raccolta, raggiungendo testi di esplicita significazione su un piano generale di riflessione storico-esistenziale. Nella poetica del significante si sono verificati smottamenti verso il significato, mai assente ma anche mai così presente.
Lo stesso Bandini e prima di lui Agosti, ha rilevato sul piano metrico una riottosità dei versi di Zanzotto ad aderire alla misura classica dell’endecasillabo. Mi sembra che nel caso che stiamo esaminando, ma è un’intuizione che andrà verificata maggiormente e con prospezioni più approfondite, emerga con tutta chiarezza la dimensione non accentuativa ma quantitativa dei versi di Zanzotto:
fotomacchine in colori giulivi
Breve breve lunga. Non si vuole dire che i versi di Zanzotto aderiscano a una specie di “metrica barbara”, piuttosto che essi posseggono una misura interiore che detta l’alternarsi delle pulsazioni in senso naturaliter non tonale.
L’insieme di questi elementi contribuisce a dare all’impasto materico dell’ultimo Zanzotto un carattere di “sacrosadica beltà” che conquista e annette ulteriori universi alla sua ricerca del sublime perduto.
Andrea Zanzotto, “Conglomerati” di (Mondadori – Lo Specchio, Milano 2009).
Alessandro Rivali e la caduta di Bisanzio
Con la raccolta di poesie di Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano 2010, ci imbattiamo in un genere poetico perlomeno inconsueto, potremmo chiamarlo “poesia storica”, nello stesso senso in cui parliamo di romanzo “storico”, anche se con alcune peculiarità di cui diremo. Non mancano in questa raccolta poesie ambientate nel presente o in un passato prossimo, ma il cuore pulsante del libro è al passato remoto: si tratti della “Caduta di Bisanzio”, che dà il nome all’intera raccolta, di “Pompei”, del “29 maggio 1453”, di “Giovanni della Croce”, dell’”Eldorado”, dei “Sacrari”, di “Persepoli”, della “Terra dei serpenti” o ancora della “Terra di Lamec” o infine di “Atlantide”, che sono appunto i titoli delle singole sezioni.
L’autore (nato a Genova nel 1977) ha svolto la sua tesi di laurea in storia militare, sull’immagine della guerra negli anni della Belle époque e in questo secondo libro di poesie (il primo, La Riviera di sangue, è uscito nel 2005, poi arricchito nel 2007) ne mette a frutto lezioni e suggestioni. Tuttavia, come vedremo, sotto i roghi e le macerie della storia forse cerca altro. Da questa ricerca si fa trasportare nelle epoche e nei luoghi, con scrupolo da archivista e piacere da sognatore.
In tale contesto non sorprende il costante tono epico che assumono i testi poetici, con curvature spesso bibliche. Il tempo preferito degli incipit è costantemente all’imperfetto o al passato remoto: “Era segno dell’armonia primaria”, “Il vento trascinava città / e disperdeva eserciti”, “La città moriva con il mare”. Anche quando il tempo dei verbi cambia, la tonalità è quella epica: “Raccontami ancora di Plinio”, “Apprenderai / la risalita dei pitoni, / il male invadere i pori, / la veglia assiderata di Macbeth”.
Di una strutturazione epica sono spie anche i costanti procedimenti metaforici o para-metaforici: “le spade che scucivano i ventri”, “i liquidi bollirono il ferro”, “Lo chiusero nella gabbia / per miniare la sua schiena / con discipline di ferro” (riferito a Giovanni della Croce), “Uomini ardevano nell’acqua”, “Intorno alla rocca le costole / sono le prime a spolparsi / arcate e strade di roditori”. Lo stesso riferimento alla figura del “drago”, che compare non meno di nove volte, è indizio di un’intenzione metaforica che qui si concretizza in un simbolo ben preciso, di fuoco e distruzione, non senza più sottili rimandi mitologico-cristiani: “Era una solitaria ascesi / nella lotta contro il drago”.
I testi sono ricchissimi d’immagini da bestiario medievale e spesso in essi l’autore fa ricorso a un altro procedimento retorico di origine epica, l’enumerazione. Si prenda questa processione di serpenti: “mamba, aspidi, taipan, / crotali dei boschi, cobra / e mostri dalle bande brune”. Anche in altri luoghi troviamo elenchi fortemente evocativi, questa volta di città: “ Ecbatana / Persepoli, / Timbuctu, Janua / o Atlantis, / la luminosa”.
L’autore stesso ha dichiarato nelle note le sue fonti. Per Bisanzio si tratta de La caduta di Costantinopoli (vol.I. Le testimonianze dei contemporanei; vol. II, L’eco nel mondo, curato da Agostino Pertusi per la Fondazione Lorenzo Valla nel 1976. Per Agostino Pigafetta, il suo diario Relazione del primo viaggio intorno al mondo.
L’autore sembra decisamente innamorato dei suoi studi e della materia che tratta e in molti luoghi ne fa sentire la necessità e il piacere anche a chi legge. Si ha tuttavia l’impressione che l’autore si accontenti del fascino del contenuto, lasciando un po’ in ombra l’aspetto più propriamente poetico-stilistico. Non nuocerebbe affatto a molte poesie una loro stesura in prosa, anzi sembra che derivino da un’originaria stesura in prosa, anche se si tratta di una prosa che potremmo definire “d’arte”, raffinatissima.
Negli esiti migliori è risolto con evidenza icastica il singolo sintagma o verso, che preso da solo è spesso memorabile: “Ricordami la seduzione del fuoco”. Il gioco delle ricorrenze foniche oscilla invece tra allitterazioni, assonanze e quasi-rime: “le travi carbonizzate dei piani. / Ricordi di acque e giardini / sulla pittura pompeiana” (corsivi miei). O soluzioni che sono senz’altro ben accette a chi le adotta ma possono anche sollevare qualche dubbio, per esempio: “le lance uscivano dalla fossa / sollevando una diga spettrale. / Era una terra amata dagli spiriti” (corsivi miei).
Con questo si vuole dire che l’aspetto propriamente poetico non sempre sorregge stilisticamente la dimensione visionaria e molte volte affascinante delle immagini e delle situazioni. Con tutta evidenza il poeta cerca attraverso questo viaggio nel passato della storia qualche cosa che va molto al di là. Si potrebbe dire che il cuore del problema si celi in questi cinque versi:
“Non trovava il filo, / così spaccato dalle domande; / cercava la teologia nella storia, / dove risiedesse / la fonte dei cicli e dei ritorni”.
Si tratta di domande molto impegnative. L’aspetto ammirevole consiste nel caricare la poesia ancora una volta del peso di queste domande, fiduciosi che essa possa portarle. In questa dignità riaffermata al fare poetico risiede gran parte della forza di questo libro.
Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano 2010.
I mondi di Guido Mazzoni
Sono 31 le poesie – scritte fra il 1997 e il 2007- assemblate nella raccolta di Guido Mazzoni (1967), I mondi, che Donzelli ha mandato in stampa nel 2010.Questo è il suo primo libro di poesie. Le sue prime pubblicazioni di poesie risalgono però ai primi anni Novanta, su riviste: nel 1991 alcune, selezionate da Cesare Garboli, su «Paragone», e nel 1992 sul terzo dei Quaderni di Poesia Italiana contemporanea sotto il titolo «La scomparsa del respiro dopo la caduta». Ha collaborato all’Almanacco dello Specchio della Mondadori e diretto la rivista «Arte poetica».
I mondi è diviso in sei sezioni. La più folta contiene nove testi. L’impianto strutturale sembra quindi disegnato all’insegna del minimalismo. Ma ci si accorge ben presto che le sezioni hanno segrete corrispondenze interne, che si lasciano cogliere però solo a uno sguardo più attento. La stessa cosa capita con le scelte formali delle singole poesie. Ce ne vogliono tre perché si capisca quale è la misura più congeniale all’autore.
La prima (“Questo sogno”) ha versi medi e piccoli, in un’unica gittata strofica, la seconda (“Prato est”) versi medi, divisi però in due quartine ben scandite, la terza (“Giocatori”) ha versi lunghi, divisi in due strofe. Poi ci accorgiamo che le prime tre poesie dettano il “la” ai tre leit-motive principali della raccolta. E inoltre la prima, nel suo impianto formale, è molto simile all’ultima (“Pure Morning”) che se ne sta tutta sola nella sesta e ultima sezione e chiude il libro.
Da quanto andiamo dicendo sembra scaturire un gioco alla dissimulazione, che Mazzoni pratica con un apparente atteggiamento informale, che in realtà cela una sapienza formale tutta sotterranea. Mazzoni insegna letteratura (all’Università di Siena) ed è un saggista di prim’ordine – è autore dei saggi «Forma e solitudine» (Marcos y Marcos, 2002) e «Sulla poesia moderna» (Il Mulino, 2005).
La stessa cosa – dissimulazione e sapienza formale- potremmo dire del gioco delle figurazioni sonore che emerge nei singoli testi. Prendiamo ad esempio il primo testo, “Questo sogno”. A una prima lettura sembra un frammento memoriale che aleggia nel ricordo dell’autore (“la mano / di mio padre, che mi porta / sulla spiaggia”); poi ci si accorge degli ingredienti che danno vita al sapore della lettura.
Tutto è giocato in assonanza su una terna di vocali sia all’interno sia in terminazione di verso: aia (sabbia, ansia, infanzia, plastica), che ruota talvolta sulla mutazione di una delle vocali: aio (squarcio, paesaggio, attimo), anche col retrogrado in oia (memoria), o anche in eio (risveglio) o uio (buio) o altre combinazioni. La trama del ricordo è sorretta da una metamorfosi di vocali, che forniscono un ritmo incantatorio con una cadenza sdrucciola alla fine (“attimo”), anticipata da “indefinibile” e “nitido”.
Ma a questo punto va letta, per coglierne i valori:
Ogni voce torna nel risveglio
quando le forze compresse in questo sogno
sono il mondo che attraverso.
La forma della costa dopo il temporale,
l’odore di pioggia nell’aria, la mano
di mio padre che mi porta
in alto, sulla sabbia,
se lo stupore nomina le cose
e le fa essere davvero,
mare e casa, darsena e spiaggia,
mentre nel sole respiro la mia ansia
quando l’infanzia cede alla memoria
la paura, l’origine delle parole, questo squarcio
pieno di cose che parla del paesaggio
di una mattina degli anni Settanta mentre guardo
il mio volto, nel vetro ancora buio,
apparire tra le nubi. Ricordo
sempre più spesso solo gli atomi compiuti,
la vita presso di sé, così perfetta
nelle monadi dove eravamo veri
per un istante indicibile il suono
della pioggia sui teli, il vento della plastica,
mia madre chiude la tenda, tra il fulmine
e il tuono un vuoto indefinibile,
fuori dal tempo di tutti
il mare nitido, noi stessi per un attimo.
Anche la fissità assonanzata della vocale “o” (“sogno / sono il mondo” e altri esempi simili) contribuisce alla combinatoria delle vocali di cui si parlava in precedenza. Questa poesia si intitola “Questo sogno”.
Il pedale memoriale attraversa tutta la raccolta, a delineare un’elegia del ricordo, che sembra la cifra stilistica più peculiare di questo libro di Mazzoni (“Le domeniche informi lo accolgono bambino”).
La prima sezione si chiude con la rievocazione di un incidente stradale. E qui notiamo un altro tratto stilistico delle poesie di Mazzoni, l’incipit avverbiale o congiuntivale, talvolta aggettivale: “come se” (“Come se non ci fossero questi pezzi intorno a me e non sentissi / nell’urto del corpo, una forma di stupore”); “ecco” (“Ecco la curva del cielo, ecco la luce”); già nella prima poesia avevamo un “ogni”; ancora un “come se” (“Come se non avessi un’esperienza”); “benché”; “come quando” (“Come quando, nel parco che chiudeva”), e così via.
La seconda sezione rompe l’indugio lirico-elegiaco per presentarsi senz’altro in prosa, ma in realtà si tratta di poesia in prosa. Una forma di variazione.
Altri luoghi del testo fissano e richiamano luoghi urbani variamente vissuti e attraversati dall’autore (che ha vissuto e ha lavorato a Pisa, Parigi, Londra e Chicago), con una netta prevalenza di luoghi di grandi città, con il corollario di un senso di spaesamento e solitudine. Sono ritratti della “vita collettiva in una grande metropoli mondiale”. L’ultima parola dell’ultima poesia è una sigla che esplicita e raccoglie tutti i fili e tutte le trame che si sono andate svolgendo nel corso della raccolta. Questa parola è: solitudine.
Guido Mazzoni, I mondi, Donzelli (“Poesia”), Roma 2010.
L’ora felice di Francesco Scarabicchi
I testi raccolti in L’ora felice di Francesco Scarabicchi (Ancona 1951) sono stati composti dal 2003 al 2009. Alcuni di essi sono stati presentati anteriormente in diverse raccolte. E’ un preciso itinerario che viene tracciato, ma di una compattezza tale che è difficile discernere il prima o il poi.
La controprova si può fare cercando di cogliere le variazioni all’interno della partitura, sulla base della divisione in sezioni. Non si colgono differenze rilevanti, ma scarti, brevi sussulti, ricomposizioni. L’ispirazione di Scarabicchi si svolge tutta o quasi intorno agli stilemi della lirica d’amore, coltivata con appassionata competenza. Della lirica d’amore ha tutto, il tono malinconico, in cui il passato vive nel presente e lo condiziona fino a renderlo un’allegoria stessa del passato, la coerentissima scansione breve dei testi, l’uso virtuosistico dell’endecasillabo e del settenario (o del doppio settenario).
Già Giancarlo Alfano, antologizzando dei passi di Scarabicchi in Parola plurale, del 2005, aveva colto la caratteristica della brevitas come precipua: “Chi legge le raccolte di Scarabicchi si accorge che la sua poesia predilige le forme piccole e minime”.
Gli esempi incalzano fin dall’esordio:
“Tienimi finché non sarà mattino, / luce che filtra appena, viso che si riposa. / Sono l’ombra discreta che t’assiste, / la presenza leggera che ti guarda, / il nome che si scioglie al primo sole”.
L’io lirico è scandito da questa presenza-assenza, che aleggia ma come da lontano:
“Chissà dov’ero prima di essere qui, / chissà chi ero prima di essere te”; è un “ospite muto che si fa da parte”; il suo è “un crocevia di perdite e confini”; è una presenza che svanisce “dove il giorno giunge quieto”.
In questa presenza-assenza si gioca la particolare cifra stilistica del poeta marchigiano, l’unione di astratto e di concreto (“gli occhiali che per me guardano il mondo”, “ogni tenero nulla che dissolve”) fino a esiti del tipo: “Passa di qua la nostra vita, / all’insaputa buia del lungomare, / nell’onda di ogni brivido, nel sangue / di un gesto tuo che sceglie di fermarsi / dove il mio sguardo arreso ti pronuncia”. E’ come un’istantanea in cui un attimo evoca tutto il passato. E’ stato Pier Vincenzo Mengaldo a notare che nella poesia di Scarabicchi vi è “uno schiacciamento del presente da parte del passato”, tale che “l’io presente appare come un ospite”.
Il senso profondo dei testi è affidato spesso a una particolare cadenza metaforica che ricorre in tutta la raccolta, quella dell’estinguersi, dello sciogliersi, del consumarsi; “quest’ombra che si ostina nella stanza, / svanirà come neve al sole”; “vita mia che consegni vetro e fiamma / al lume che vacilla a ogni vento”; “il destino di un piatto che s’infrange”: “nessun’ombra si bagna, mai nessuna… scompare nell’incanto del silenzio” fino alla poesia contrassegnata da un punto interrogativo e che si compone di un solo verso: “Arde vicino, brucia, poi si spegne”.
La sezione “La luna nel rio”, aperta da un “Antefatto di Giacomo”, una quartina scritta dal figlio del poeta all’epoca dei suoi dieci anni, è più chiaramente dedicata a quest’ultimo. Si parla di coniglietti bianchi, pesciolini rossi, ninne nanne. La campitura in questo caso è più acquerellata, a colori pastello, ma non meno stilisticamente coerente. Altri intervalli sezionali sono dedicati a traduzioni di sonetti di Shakespeare.
La raccolta si apre e si chiude con due testi in prosa che scandiscono le vicende narrate come un sipario. Il primo circoscrive tempi e luoghi: “Agosto è questo diario dove giungono, discrete, le parole come gli uccelli d’alba silenziosi quando Toscana è l’orma del viaggio che finisce”. Il secondo brano in prosa si intitola “Il mese” ed è un chiaro explicit: “Poco a poco la perdi la voce lirica che ti lascia come chi s’alza nel buio di un cinema e va via”.
Lo stesso poeta iscrive se stesso nella dimensione di una “voce lirica” di cui abbiamo cercato di delineare le caratteristiche. Una voce lirica basata su un monolinguismo senza scarti, un linguaggio medio i cui sussulti sono solo metaforici, le cui sorprese consistono solo negli accostamenti e nelle mescidazioni di astratto e concreto, echi del passato e rifrangenze nel presente.
Francesco Scarabicchi, L’ora felice, Donzelli (“Poesia”), Roma 2010.
Alla prima luce del mondo di Alberto Toni
Il titolo del libro di Alberto Toni, “Alla lontana, alla prima luce del mondo” potrebbe far pensare a una poesia solenne, dai tratti scultorei ed epocali. Un po’è così, ma c’è anche molto altro. Prendiamo per esempio la prima sezione, titolata “Trovatori”. Incontriamo una “sessione di lavoro”, che è chiaramente riferita al computer, un “palmare” (due volte), un “getto improvviso dell’innaffiamento automatico”, un “auricolare” (per ascoltare musica rap), non senza una menzione delle “connessioni” e dell’”alta velocità”. Toni non teme di irrorare il tessuto lessicale delle sue poesie di parole desunte da linguaggi e gerghi della contemporaneità. Questo è tanto più vero proprio nella prima sezione, già citata, titolata “Trovatori”, dove ogni poesia richiama un trovatore provenzale, Jaufre Rudel, Giraut de Bornelh, Raimbaut d’Aurenga, Peire d’Alvernhe, Bernart de Ventadorn e così via. Idea molto efficace per sottolineare il tessuto amoroso dei testi senza trasalimenti romantici.
Già da questi primi accenni possiamo notare la sapiente orchestrazione del poeta romano, che gioca continuamente tra presente e memoria culturale, sia dal punto di vista storico, sia da quello stilistico. I testi poetici della raccolta hanno un impianto basato su versi mediamente lunghi, non senza “sprezzature” metrico-ritmiche: per esempio, in una serie di versi narrativi si incastonano settenari del tipo: “un accenno di mossa / sembra quasi una scossa / perduta in tanto amore” (Rap del primo tempo d’amore).
Un altro motivo tematico è quello dei viaggi e delle città: “Là sulla costa atlantica a New York”, Genova, dove “Le case in alto / sono a grappolo”, Budapest, Praga, la Calabria, i viaggi in mare. Ma il poeta è però deciso “a non tagliare radici, a non perdere / pezzo a pezzo quello smisurato verde”. Da questo si rivela il tessuto esperienziale-memoriale del percorso di Toni, che ha attraversato il mondo e le stagioni della storia, ma sempre con un’ancora di salvataggio: la moglie, la “casa che fu abitata”, la memoria del suo passato, la cultura personale; quest’ultima traspare dai riferimenti classici che si infittiscono al centro della raccolta: l’Olimpo, Giano, il Tempio di Giove Capitolino, il valoroso Achille, lo “sfortunato” Ettore.
Un ulteriore livello del testo è quello per così dire “metaletterario”. Si è già visto il riferimento ai trovatori. Più avanti troviamo quello a Shelley, al Pierre Bezuchov di Guerra e pace, a Elio Pagliarani e un’intera sezione, titolata “Nove variazioni”, è basata su una poesia di Amelia Rosselli: “i giovani, le loro rose” nel volume “Documento” edito da Garzanti nel 1976.
Nella parte finale l’intonazione assume un andamento stilisticamente più contenuto. Le singole poesie si circoscrivono nella misura dei quindici-sedici versi o anche meno, tranne la penultima “Quarto Stato”.
E con la misura più compatta anche il tono si fa più sentenzioso, del tipo
“Assumiamo su di noi il dolore / del mondo”, anche se poi in chiusa si dice che “il desiderio non è chiave di volta / non trama”.
E’ il tema del desiderio: “il desiderio avvolge il male”, ma la parola “desiderio” assume un connotato plurivoco, dai molti significati e il desiderio si allarga e si espande:
“Non dobbiamo pensare sempre ai morti. / Dobbiamo pensare ai vivi, farci strada/ nel dirupo del morso del cane, sopravvivere”, con un’immagine veramente bella (il dirupo del morso del cane).
E’ vero che il poeta può “raccontare ormai soltanto / frammenti di storia”, ma è “in volo”, anche se “senza controllo”, “in volo libero, in caduta naturale sul secolo nuovo”.
La conclusione è in positivo, sia pur con una leggera pronuncia retorica che rompe la felice alternanza ritmica della raccolta: “Ci aspetta una lunga / marcia domani. La storia sui carri del progresso / e della tecnica, imparare in fretta la lezione”.
E’ una raccolta, questa di Toni, che ha una sua complessità; ma è anche resa fruibile e direi (senza paura) godibile per la scelta di un linguaggio “medio” e però sapientemente tramato al suo interno da richiami e memorie.
Alberto Toni, Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book, (Collana I Poeti, a cura di Roberto Mussapi), Milano 2009.
Claudio Damiani, una poesia che “afferra il cuore”
Fazi ha mandato alle stampe nel 2010 la raccolta antologica delle poesie di Claudio Damiani, Poesie (1984-2010), curata da Marco Lodoli. Comprende testi di Fraturno (Abete, 1987), La mia casa (Pegaso, 1994), La miniera (Fazi 1997), Eroi (Fazi, 2000), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006), Sognando Li Po (Marietti, 2008) e una sezione di inediti, Il fico sulla fortezza.
Un ampio quadro della poesia di Daniani, che è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo, ma residente a Roma fin dall’infanzia, dove ha svolto le sue esperienze più significative. Si ricorda il suo ruolo sulla scena poetica romana degli anni ’70, in particolare in relazione alla rivista Braci.
Marco Lodoli nella Prefazione scrive: “La poesia di Claudio Damiani ha un timbro e una sostanza immediatamente riconoscibili, perché afferra il cuore e perché viene da lontano – dal sempre, direi, se il sempre fosse una categoria letteraria”. Questa sembra verosimilmente una prima categoria per definire la poetica di Damiani: il “sempre”; ma sarebbe incompleta se non aggiungessimo il “dove”, come fa Raffaella Scarpa nella presentazione di Damiani nella raccolta Parola plurale: “La costante che aggrega l’intera produzione poetica di Claudio Damiani è la necessità dei versi di inscriversi in un luogo. Lontanissimo dagli sfondi indistinti, dalle espropriate terre di confine di tanta poesia contemporanea, Damiani traccia nella sua opera una mappa di spazi certi, nominabili: la Sabina, la fonte Bandusia, il lago Fraturno, Percile, Morella, il Gargano e il villaggio minerario dell’infanzia, l’Elba, la Cala degli Eredi, Portoferraio, il Monte Bello”. Sono appunto gli scenari che scorrono nelle varie raccolte antologizzate, i luoghi dell’ancoraggio e della memoria. Non fondali scenografici, ma punti fermi di un continuo ritorno. Ci dovremmo però chiedere quali dimensioni figurali assumano nella poetica di Damiani e lo si dovrà fare auscultando i testi in profondità, dotati come sono di una chiarezza e di un’evidenza palmare, ma anche solcati da inquietudini sottaciute o appena emergenti.
Non conosce storia la poesia di Damiani: “Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte, / che questa gatta davanti a me si stia lavando / e scorre il suo tempo…/ che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano” (da La mia casa, 1994). Basterebbe questo solo esempio per illustrare la poesia di Damiani, anche se poi, successivamente, ha conosciuto evoluzioni e sviluppi interni.
Nella poesia citata c’è insieme una concezione filosofica e una stilistica. Quella filosofica è più o meno chiaramente riconducibile a un certo stoicismo di fondo (consapevole e anti-eroico); quella stilistica è analizzabile nell’impianto metrico-formale della poesia, che sembra riferibile alla tradizione poetica ma in realtà lo è solo in parte. Troviamo una forma chiusa, ma non isostrofica, senza scansione interna, la sua unità è solo concettuale. I versi non si lasciano ricondurre a metriche censurabili. E’ un quieto ragionare, consapevolmente e studiatamente senza musica, senza ritmo. Quieto, appunto, senza movimento. Il profilo sembra volgere a una passiva accettazione dell’esistenza, ma è, in realtà, della vita nella sua essenza (il “sempre” di cui parlava Lodoli). “Come sto adesso io qui davanti alla tomba di mio padre / – né più né meno- starà mio figlio davanti alla mia tomba” (da Eroi, 2000). I versi sono due solo tipograficamente, ma nonostante non abbiano una misura interna ci appaiono come necessari, “poetici”, di quella poesia tutta giocata su un’interiore gentilezza d’animo.
La poesia di Damiani non esibisce artifici retorici, non gioca con figure di senso o di suono, ma è incline a un certo slittamento semantico, fino a replicare la stessa parola in fine di verso (“ci vorrei abitare / con la mia famiglia, per tutto il mio tempo / in questa casa con un pagliaio, / al centro del paese, fuori del tempo”, da Eroi) dove è il diverso significato della stessa parola che è importante. E non a caso è la parola “tempo”. Ancora un esempio: “Gli uccelli cantano, vorrei accarezzarli, / vorrei fermarmi questa notte con loro. / Vorrei sedermi qua e solamente respirare, / respirare come questi fiori, questi steli, / come l’aria che posa quieta su loro (da Eroi).
Ogni poesia di Damiani è un manifesto programmatico della sua concezione della vita e della morte, ma non dispiace, nella loro leggerezza, vederle scorrere una dopo l’altra nelle varie raccolte. Rare sono le accensioni analogiche (“C’è la sera intorno ai tuoi capelli”) o le estroversioni da una medietà assoluta del linguaggio (“Morire è come nascere / qualcosa che non è che dobbiamo fare noi”).
Solo in Sognando Li Po (2008) la poesia di Damiani acquista un altro passo; nel farlo, guadagna in varietà ma perde in riconoscibilità. Nella sezione degli inediti (Il fico sulla fortezza) il poeta sembra tornare sui suoi passi, ritrovando il suo mondo che aveva lasciato per un attimo.
“Vorrei semplicemente descrivere / quello che vedo, non altro”. In questa descrizione consiste il realismo della poetica di Damiani. Un realismo nutrito di rovelli filosofici che si placano sotto un albero, in un giardino, sul far della sera, con il vento che muove i capelli.
Claudio Damiani, Poesie (1984-2010), a cura di Marco Lodoli. Fazi (“Le strade”), Roma 2010.
Conclusioni di metodo
Questi che abbiamo presentato sono saggi di scavo del metodo fenomenologico. La scelta delle raccolte è dovuta anche al periodo di tempo in cui sono state presentate, per evidenziare un certo stato dell’arte in ambito poetico e in ambito italiano. Si sarebbe potuta operare anche una scelta diversa, ma in questo modo si poteva agire su autori celebri e meno celebri le cui pubblicazioni si situavano in un preciso lasso di tempo.
Come si può notare è stata prestata una particolare attenzione all’uso della lingua poetica, che si basa sul linguaggio naturale ma che vive anche di un suo orizzonte particolare. In questo ambito ogni autore crea il suo proprio orizzonte linguistico. Abbiamo potuto notare che l’orizzonte linguistico è tanto più vivo ed evidente quanto più le attese del poeta sono alte dal punto di vista della coscienza poetica: Sanguineti e Zanzotto osano molto di più dei loro colleghi più giovani; questo è dovuto alla particolare stagione in cui sono emersi Sanguineti e Zanzotto, che è quello delle neo-avanguardie letterarie del secondo dopoguerra. L’orizzonte d’attesa e l’intenzionalità poetica in questo caso sperimentava nuovi livelli di confronto col tessuto linguistico.
Dall’analisi comparata di autori di diverse stagioni letterarie emergono anche i confini che gli autori assegnano al “poetico” e alle sue possibilità.
Antonio De Lisa
Diritti riservati
Abstract
How can we make texts speak? Analyzing their deep structures from the linguistic-rhetorical point of view. Human experience (the horizon of human experience) has provided a wide spectrum of poetic corpora on which the further development of poetry is based. Each author renews the repertoire drawing on the one built before him. But each author leaves the mark of a new experience. This essay takes on a phenomenological perspective to analyze poetic texts. For the occasion, collections have been chosen that present a fairly broad spectrum of poetic problems.
Categorie:Q00.01- Fenomenologia della Letteratura
Rispondi