Gli inizi
La storia del teatro latino inizia, convenzionalmente, nel 240 a.C. con la rappresentazione della prima commedia di Livio Andronico. Prima di allora, esistevano due forme di spettacoli in cui prevaleva l’aspetto buffonesesco: le atellanae (farse di origine osca, in cui erano presenti quattro tipi fissi e gli attori improvvisavano seguendo un canovaccio) e i fescennini (rappresentazioni improvvisate, caratterizzate prevalentemente da battute salaci e licenziose, che si tenevano in occasione delle feste rurali).
La provenienza di molti testi è di origine greca, in forma di traduzioni letterali o rielaborazioni (vertere), mescolate ad alcuni elementi di tradizione etrusca. Era anche d’uso la contaminatio, consistente nell’inserire in un testo principale scene di altre opere, adattandole al contesto. Non di rado i testi erano censurati, impedendo riferimenti diretti alla vita civile o politica, mentre era esaltato il gusto della gestualità e della mimica. Il teatro era rivolto alla popolazione intera, e l’ingresso era gratuito.
Nel periodo arcaico il termine latino fabula designava qualsiasi rappresentazione teatrale tragica o comica. Il genere ebbe un grande sviluppo: il teatro rappresentava un momento di intrattenimento collettivo a carattere popolare e, in quanto tale, a Roma era organizzato, a spese dello Stato, dagli edili e dal pretore urbano durante le cerimonie religiose. La popolarità che esso arrecava poteva infatti tradursi facilmente in un vantaggio per la carriera politica, così che talvolta erano gli stessi magistrati ad assumersi l’onere delle spese dei ludi scaenici, che si tenevano durante le feste religiose (feriae), nelle quali, oltre alle cerimonie sacrali, si disputavano gare sportive (ludi circenses) e si tenevano spettacoli di vario genere.
Le feste religiose romane
La rappresentazione di tragedie e di commedie avveniva durante le feste religiose principali, che a Roma erano quattro: in aprile, in onore della dea Cibele, la Magna Mater, si tenevano i ludi Megalenses, istituiti nel 191 a.C.; in luglio i ludi Apollinares, fondati nel 212 in onore di Apollo; in settembre i ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo, che erano i più antichi perché risalivano al 364; infine, in novembre, i ludi Plebeii, iniziati nel 220 in onore di Giove. A queste feste si devono aggiungere anche i ludi Floreales, iniziati nella seconda metà del sec. III, ma celebrati con regolarità dal 173 a. C., e altre feste di carattere straordinario, come quelle per il trionfo di un generale.
Gli edifici teatrali
Prima del 55 a.C., anno in cui fu costruito il primo teatro permanente in pietra, quello di Pompeo, le rappresentazioni erano tenute su un palcoscenico in legno (pulpitum) provvisorio, montato in una via o in una piazza, soprattutto al Circo Massimo e al Circo Flaminio. La scena era rappresentata da pannelli mobili dipinti, provvisti di porta per consentire l’ingresso degli attori. Una serie di sedili mobili permetteva ai patrizi e, forse, anche ad altri spettatori di assistere alla rappresentazione seduti, mentre il resto del pubblico stava in piedi. Le parti femminili erano recitate da attori maschi, riuniti in compagnie (greges) dirette da un capocomico (dominus gregis). Gli attori bravi diventavano famosi e guadagnavano bene, ma erano quasi tutti schiavi o liberti. Gli autori stessi non erano di elevata condizione sociale e nessuno di loro era nato a Roma. Quando nel 207 a.C. venne fondato il collegium scribarum histrionumque, cioè una specie di corporazione degli autori e degli attori, con sede sull’Aventino nel tempio di Minerva, nessun libero cittadino romano ne entrò a far parte. Tuttavia l’istituzione di questo collegium stava a indicare non solo l’importanza che il teatro aveva assunto nella città, ma anche l’esistenza di altri scrittori di cui non è rimasto il nome, oltre a Livio Andronico e a Gneo Nevio; uno di questi compose il Carmen Priami, un altro il Carmen Nelei.
Le maschere
Sulla scena gli attori indossavano maschere e parrucche in modo che gli spettatori potessero riconoscere immediatamente il tipo di personaggio: il vecchio, il giovane innamorato, il parassita, l’avaro, il soldato fanfarone, la matrona, lo schiavo, il padrone e altri ancora. Non si sa se le maschere fossero già in uso all’epoca di Andronico, ma lo era senz’altro nel sec. II a.C.
Le maschere romane erano di legno o di tela, simili a quelle in uso nell’antica Grecia: ricoprivano l’intera testa, ed erano fornite di capelli posticci, conformi alla maschera di appartenenza. I tratti somatici dei personaggi erano caratterizzati fortemente, facilitando l’interpretazione di personaggi diversi da parte dello stesso attore. Inoltre, la conformazione era tale che esse fungevano da megafono, ampliando la voce dell’attore nei grandi teatri dell’antichità. L’espressione “ut per-sonaret”, che ne definiva la funzione, avrebbe poi dato origine al termine “persona” con cui si designavano, da cui deriva personaggio.
Secondo studi più recenti, però, questa sarebbe una credenza errata, basata su una falsa etimologia del termine latino per la maschera (persona), che non dovrebbe inteso come derivato della preposizione per e dal verbo sonare bensì dal termine che in greco antico indica il viso (προσῶπον / prosôpon) per il tramite dell’etrusco phersu. A sostegno di questa tesi si porta la quantità lunga della vocale “o” di persona, non corrispondente a quella del radicale del verbo sonare ma invece riconducibile alla omega del termine greco.
L’uso della maschera, d’obbligo nella tragedia, non era altrettanto consueto nella commedia, in cui fu introdotta solo nel 130 a.C. dal capocomico Minucio Protimo, e in seguito dal famoso attore Quinto Roscio. L’Onomastikon di Giulio Polluce riporta la descrizione di quarantaquattro maschere utilizzate per la rappresentazione di commedie: undici per il ruolo di giovane, nove per quello da vecchio, sette per gli schiavi ed altrettante per le cortigiane, cinque per donne giovani, tre per le donne anziane e due per le fantesche.
Nel teatro dei mimi, la maschera non era necessaria, e anche dagli altri generi progressivamente scomparve.
Le commedie
Con Andronico e Gneo Nevio, il teatro latino comincia ad acquisire una fisionomia propria. Mentre Andronico rimane legato ai modelli della commedia nuova greca, Nevio propone drammi di soggetto romano, più originali nel linguaggio e ricchi di invenzioni nello stile, arrivando a inserire in una sua commedia una satira rivolta a personaggi contemporanei come Publio Cornelio Scipione, che gli valse il carcere: la satira personale fu in seguito espressamente proibita dalla legge.
La commedia, apparentemente, si rifugia nella imitazione delle commedie di Menandro. Tito Maccio Plauto adatta i temi e i personaggi greci al pubblico romano, nascondendo però dietro ad una Grecia spesso improbabile tematiche riconoscibili del mondo romano a lui contemporaneo. A Plauto fin dai tempi antichi vengono attribuite centotrenta commedie, di cui ventuno sono giunte fino a noi, che riscossero enorme successo, contribuendo a far evolvere il rapporto della società romana con il teatro, sfidando il rigore censorio dei ‘costumi’ antichi. Plauto si ispira ai modelli greci per creare nuove soluzioni, come invenzioni linguistiche, intrecci, battute, musiche e danze, che finivano per realizzare quasi dei musical, che purtroppo, oggi, a causa dell’incompletezza del materiale plautino tramandatoci, non si possono apprezzare pienamente.
La nascita di una letteratura drammatica autonoma viene confermata da Ennio, che sulla scia del successo plautino scrive satire, ma anche tragedie, e Pacuvio. Delle loro opere restano pochi frammenti, e i giudizi di Orazio, Cicerone e Varrone che non lesinarono elogi per il doctus Pacuvio, definito come il maggior tragico latino.
Si comincia a delineare la necessità di un teatro più raffinato e letterario, che unisca le esigenze del pubblico con quelle dei ceti più colti. In questo quadro, dopo i tentativi di Cecilio Stazio, che pare ebbero poco successo, si inserisce l’ancora adolescente Publio Terenzio Afro. Liberto cartaginese, Terenzio scrive commedie delicate, quasi sprovviste di ciò che venne in seguito chiamata la vis comica.
Accanto alle commedie d’ambientazione greca, cominciano ad affermarsi le commedie di argomento romano. La commedia romana ha grande somiglianza con il genere greco, con alcune innovazioni: l’eliminazione del coro (ripristinato in epoche successive nelle diverse trascrizioni) e l’introduzione dell’elemento musicale. La commedia ‘greca’ era chiamata fabula palliata (così chiamata dal pallium, mantello di foggia ellenica indossato dagli attori), mentre la commedia ambientata nell’attualità romana era detta fabula togata (dalla “toga”, mantello romano) oppure tabernaria.
Dapprima, timidamente, il luogo dell’azione viene posto in piccole città italiche, trattando questioni riguardanti il popolo, le relazioni familiari, i problemi quotidiani. Titinio, Atta e Afranio (quest’ultimo lodato da Cicerone per la finezza) diedero vita a una drammaturgia rispettosa degli usi romani, attenta persino nei dettagli a non offendere i costumi e le regole sociali: un esempio è la completa sottomissione dei personaggi degli schiavi. Rispetto alle commedie modellate sull’esempio greco, qui le donne hanno parte attiva, e i personaggi femminili sono tratteggiati nella loro psicologia.
Le tragedie
Le tragedie erano scritte in un linguaggio solenne, lontano da quello quotidiano, almeno da quanto si desume dai pochi frammenti pervenuti, nonostante il genere fosse molto rappresentato in tutta l’età repubblicana. Le commedie usavano, invece, una lingua più familiare e prevedevano parti recitate e cantate con grande varietà di metri e un ricco accompagnamento musicale, eseguito da un flautista. I temi trattati erano quelli della famiglia, del denaro, della gelosia, dell’amore contrastato, dello scambio di personaggi dovuto alla somiglianza. Qualsiasi riferimento alla vita politica e sociale contemporanea era escluso, anche perché le autorità esercitavano sulla fabula una censura preventiva, controllando ciò che si metteva in scena. Non vigeva certo la libertà di espressione di cui godevano gli autori greci.
Il mimo
Il mimo era uno spettacolo, di origine greca, in cui venivano parodiate situazioni, figure, aspetti della realtà quotidiana. Era una forma di intrattenimento popolare che si alternava all’atellana e che godeva di un pubblico assiduo e attento, in quanto la rappresentazione non richiedeva allo spettatore nessuno sforzo mentale. Aveva come scopo quello di suscitare la risata e questo era affidato all’abilità e alla vena comica degli attori, che improvvisavano su un canovaccio una satira pesante e spesso oscena, entrando in scena senza maschera e a piedi nudi (planipedes). Il fatto più notevole era che nel mimo recitavano anche le donne, in genere cortigiane e schiave, guidate da un’archimima. La prima rappresentazione, di cui si abbia notizia, risale all’ultimo decennio del sec. III; in seguito si diffuse anche l’uso di recitare mimi come intermezzo o farsa terminale (exodium) nelle rappresentazioni sceniche più impegnative. Il genere assunse dignità letteraria all’epoca di Cesare, con Decimo Laberio e con Publilio Siro. Le donne recitavano e danzavano anche nel pantomimo, una danza, in genere licenziosa, in cui esperti ballerini mimavano l’azione senza parlare. Durante il balletto, un coro raccontava la trama. Non si conosce invece quasi nulla della tragicommedia o Fabula Rhintonica, così detta dal poeta greco Rintone di Taranto (secc. IV-III a.C.), che cercava di divertire gli spettatori, parodiando tragedie e commedie famose, in cui erano protagonisti eroi e anche divinità.
I generi teatrali
Palliata (fabula palliata). Era la commedia di ambientazione greca (pallium è infatti il termine latino che designa il mantello greco indossato dagli attori), che si ispirava dichiaratamente ai testi degli autori della commedia nuova, quali Filemone, Difilo e, soprattutto, Menandro, dei quali assume intrecci, ambienti e personaggi, con libertà creativa e spesso col procedimento della contaminatio. Introdotta da Livio Andronico e da Gneo Nevio, ebbe i maggiori interpreti in Cecilio Stazio, in Plauto e in Terenzio. A un prologo, in cui erano esposti l’antefatto, la trama e la richiesta agli spettatori di essere indulgenti, seguivano una protasi, uno svolgimento e un finale. Le parti recitate erano i diverbia, le parti cantate i cantica; un flautista intercalava brani musicali. Si estinse a causa dell’eccessiva uniformità degli intrecci.
Togata (fabula togata). Era la commedia di ambientazione romana, così chiamata dalla toga, la veste romana che indossavano gli attori. Ebbe inizio dopo la scomparsa della palliata. Aveva un carattere chiaramente più popolare della commedia greca; metteva in scena il mondo degli umili, dei contadini, degli artigiani, con grande varietà di tematiche, con intrecci meno complicati e con un minor numero di personaggi. La togata venne anche chiamata tabernaria, quando metteva in scena il mondo delle osterie e delle botteghe. Restano solo scarsi frammenti di autori quali Titinio, Lucio Afranio, il più famoso, e Tito Quinzio Atta.
Coturnata (fabula cothurnata). È la tragedia di ambientazione greca, che prende come modelli Eschilo, Sofocle, ma, soprattutto, Euripide. Il nome deriva dal coturno, l’alto calzare a forma di stivaletto con spessa suola, tipico degli attori greci.
Pretesta (fabula praetexta). È la tragedia di ambientazione romana, di carattere patriottico e nazionale, che esalta avvenimenti importanti o eminenti figure politiche. Il termine deriva dal nome dell’abito (toga praetexta) indossato dai magistrati romani e orlato da una striscia di porpora. La prima rappresentazione di cui si ha notizia risale all’ultimo decennio del terzo secolo.
Scenografia
Vitruvio testimonia come all’inizio le scenografie del teatro romano non fossero molto elaborate, e che gli attori, proprio come nell’antica Grecia, affidassero alla loro arte il compito dell’evocazione dei luoghi e delle circostanze. In seguito negli anfiteatri si cominciò a costruire vere e proprie macchine teatrali, adibite agli effetti speciali.
Elementi scenografici sempre presenti erano:
- il proscenium, la porzione di palcoscenico in legno più vicina al pubblico, raffigurante in genere un via o una piazza, corrispondente all’attuale proscenio.
- la scenae frons, un fondale dipinto.
- i periaktoi, di derivazione greca, prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo.
- l’auleum, un telo simile al nostro attuale sipario (sconosciuto ai greci) che permetteva veloci cambi di scena o veniva calato alla fine dello spettacolo. In alcuni teatri invece di cadere dall’alto veniva sollevato.
Fonte: http://www.capitolivm.it/speciali/commedie-e-tragedie-del-teatro-latino/

Categorie:T02- Il teatro latino
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