Il canone buddhista

Il canone buddhista

I testi sacri del Buddhismo (tradizionalmente indicati come Tripiṭaka) sono attualmente raccolti in tre canoni: il Canone pāli (o Pāli Tipiṭaka), il Canone cinese  (Dàzàng jīng), e il Canone tibetano (composto dal Kanjyur e dal Tenjyur) così denominati in base alla lingua degli scritti.

Canone pāli

Il Canone pāli o Tipiṭaka (pāli, letteralmente “Tre canestri” — sanscrito Tripitaka) la più antica collezione di testi canonici buddhisti pervenutaci integralmente. Secondo la tradizione della scuola Theravāda il loro contenuto fu fissato in forma orale durante il primo concilio buddhista a Rājagaha subito dopo la morte del Buddha e furono messi per iscritto in Sri Lanka nel I secolo a.C. da parte della comunità del monastero Mahāvihāra, anche se l’edizione del Canone pāli di cui disponiamo oggi risale al V secolo d.C. .

I Tre Canestri e i cinque Nikāya

Questi scritti si possono dividere in tre categorie, i cui fogli dei primi manoscritti, originariamente consistenti in foglie di palma, erano conservati in canestri, donde il nome collettivo (tipiṭaka, pāli, da ti, tre, e piṭaka, cesto o canestro, tripitaka in sanscrito).

Il primo “canestro”, il Vinaya Piṭaka, è la disciplina monastica, contenente le regole dell’ordine e le procedure da seguirsi in caso di infrazione da parte di un monaco, insieme al resoconto delle circostanze che hanno portato alla promulgazione di ciascuna regola;

Il secondo “canestro”, il Sutta Piṭaka, contiene resoconti della vita e degli insegnamenti del Buddha. Il Sutta Piṭaka è a sua volta suddiviso nei cinque Nikāya, elencati nella relativa voce.

Il terzo “canestro” è l’Abhidhamma Piṭaka ed è una raccolta di testi che elaborano ulteriormente diversi concetti e tesi della dottrina presentati nel Sutta Pitaka, giungendo ad una loro trattazione filosofico-metafisica.

In genere le raccolte in cui è diviso contengono testi sia antichi e probabilmente testimoni delle autentiche vicende delle prime comunità monastiche e dell’insegnamento del Maestro, che testi più recenti e successivi i primi di secoli. Ad esempio, nell’Assalāyanasutta (n° 93) del Majjhima Nikāya si confronta il sistema sociale castale indiano con quello greco privo di caste, il che porta a datare questo testo a non prima del III secolo PEV. E però il Māra Saṃyutta e il Bhikkhunī Saṃyutta del Saṃyutta Nikāya sono notevoli per il loro uso di una lingua arcaica. Caroline Augusta Foley Rhys Davids ha osservato in un’opera del 1915 come nei più importanti punti dottrinali il Sutta Piṭaka si riveli il prodotto di una comunità unita, che non ha ancora vissuto eventi scismatici. In questo concorda Nalinaksha Dutt in una sua opera del 1930. La Rhys Davids, tuttavia, nel 1928, osserva che il Canone pali potrebbe non riportare direttamente l’autentico insegnamento del Buddha Shakyamuni. Da fonti esterne si può evincere come tutti i cinque Nikāya del Sutta Piṭaka abbiano preso la loro forma attuale prima della composizione del Milinda Pañha, composto nel I secolo d.C.

Barua fa notare come studi accademici che hanno preso in considerazione i brani più arcaici del Kathāvatthu dell’Abhidhamma Piṭaka hanno portato a considerare questo testo risalente al III secolo a.C., il che porta a datare una buona parte dei Nikāya al IV secolo a.C. sia per giustificare il loro essere citati all’interno dell’opera più tarda che in ragione di considerazioni stilistiche, linguistiche e dottrinali.

L’editto di Bhāru dell’imperatore Aśoka dimostra come almeno parte dei primi quattro Nikāya abbiano preso una forma definitiva durante il III secolo a.C..

Confronti con altre fonti epigrafiche, riportati in uno studio del 1933, permettono di datare molti testi dei cinque Nikāya a prima del II secolo a.C..

Alcuni studi di gran lunga più recenti ritengono però che la versione del canone pāli che ci è giunta per opera della comunità monastica del Mahāvihāra di Anurādhapura, Sri Lanka, sia stato redatto per fornire alla comunità di questo monastero «una base istituzionalizzata per la crescita e lo sviluppo continuo della tradizione theravādin. Inoltre la comunità del Mahāvihāra aveva una base testuale apparentemente ortodossa e autorevole in base alla quale confutare i proprio rivali della comunità del monastero dell’Abhayagiri, di tendenza mahāyānica.». Va precisato, inoltre, che la redazione del Canone pāli giunto fino a noi risale alla fine del V secolo d.C. quando la versione attribuita al periodo del re Vaṭṭagāmaṇī (30 a.C.) fu rivista dai monaci del Mahāvihāra. Non sappiamo se e quali modifiche contenesse rispetto alle redazioni precedenti, in quanto anche gli altri canoni cingalesi delle scuole avversarie del Mahāvihāra (le scuole di stampo mahāyāna Dhammaruciya e Sagaliya) non sono sopravvissuti alle decisioni politiche-religiose del sovrano cingalese Parakkamabāhu I il quale, nell’XII secolo, decise che solo le dottrine del monastero Mahāvihāra potevano essere insegnate sull’isola.

Ciononostante sarebbe un errore considerare la dottrina Theravāda il solo frutto dell’elaborazione condotta nel monastero Mahāvihāra in seguito alla riforma del re Parākramabāhu I (XII secolo). Risulta infatti che, un secolo circa dopo l’era di questo sovrano, durante il regno di Parākramabāhu II (1236-1271), i monaci dell’isola erano talmente poco edotti delle scritture canoniche che queste, insieme a testi di grammatica, di filosofia e di altre scienze dell’epoca, furono fatte tutte venire dal Jambudīpa, ossia dall’India.

Sono scritti in pāli e formano la base della scuola del Buddhismo Theravāda. Altre versioni dei testi canonici buddhisti, basati a volte su fonti ancora più antiche, formano la base dei canoni di altre scuole antiche (Buddhismo dei Nikāya), presentando talvolta delle importanti differenziazioni dottrinali rispetto al Canone pāli. Tali canoni, tradotti da diversi dialetti pracritici in lingua sanscrita sotto l’Impero Kushan, furono in buona parte tradotti in cinese o in tibetano e ancora oggi si trovano conservati in queste lingue.

Canone buddhista cinese

Il Canone buddhista cinese (pinyin: Dàzàng jīng, giapponese: Daizō kyō) rappresenta la versione del Tripitaka buddhista in cinese in tutte le sue recensioni storiche diffuse e accettate in Cina, Giappone, Corea e Vietnam in epoche diverse. Da questo Canone derivano anche i Canoni buddhisti manciù e tangut.

La versione più antica del Dàzàng Jīng (letteralmente: “Grande tesoro delle scritture”), di cui rimane solo il catalogo delle opere che conteneva, risale al 515 ed era riprodotta su rotoli di carta e di seta. La prima edizione a stampa risale invece al 972 (dinastia Song Settentrionali), quando l’imperatore Tàizǔ (conosciuto anche come Zhào Kuāngyìn, regno: 960-976, sotto il niánhào Kāibǎo) decise di avviare l’incisione dell’intero Canone, fino a quel momento raccolto, su blocchi di legno, opera eseguita presso la città di Chingdu (provincia dello Sichuan). La prima incisione del Canone su blocchi di legno terminò nel 983, sotto il regno di Tàizōng (conosciuto anche come Zhào Kuāngyì, regno: 976-997, sotto il niánhào Yōngxī), quando oltre 5 000 manoscritti che contenevano 1076 testi furono riprodotti su 130 000 blocchi, l’insieme dei quali costituisce la versione del Canone cinese denominata Kāibǎo.

Questa versione xilografica fu poi portata in Corea dove, nel 1030, fu completata l’opera di una edizione analoga sempre su blocchi di legno (Canone coreano), edizione andata poi perduta a causa delle invasioni dei Mongoli nel XIII secolo.

Dopo l’edizione Kāibǎo ne seguirono delle altre, sempre a blocchi, denominate in base al luogo di realizzazione, spesso dei monasteri:

Una copia del Sutra del Loto attribuita al principe giapponese Shōtoku (573–621)
  • Chongnin, XI sec., monastero di Dongchan a Fuzhou nella provincia del Fujian.
  • Pilu, XII sec., monastero di Kaiyuan a Fozhou nella provincia del Fujian.
  • Sixi, XII sec., monastero di Yunajiue a Huzhou nella provincia del Zhejiang.
  • Zifu, XIII sec., a Huzhou nella provincia dello Zhejiang.
  • Jisha, XIV sec., Pingjiangfu nella provincia del Jiangsu.
  • Puning, XIV sec., monastero di Puning a Hangzhou nella provincia del Zhejiang.
  • Hongwu, XIV sec., a Nanchino, fu distrutta nel 1408.
  • Yongle, XV sec., a Nanchino, denominata Edizione Ming meridionale.
  • Yongle, XV sec., a Pechino, denominata Edizione Ming settentrionale.
  • Wulin, XV sec., a Hangzhou nella provincia dello Zhejiang.
  • Wanli, XVI sec., una riproduzione della Yonglo di Nanchino.
  • Jiaxing, XVII sec., a Jiaxing nella provincia dello Zhejiang.
  • Qing, XVIII sec., edizione della Corte imperiale cinese.
  • Pinjia o Hardoon, 1914, a Shangai, basata sulla edizione giapponese di Shukatsu.

Anche in Giappone si realizzarono diverse edizioni complete del Canone cinese, prima su blocchi lignei e poi a stampa:

  • Tenkai, tra il 1643 e il 1648.
  • Tetsugen tra il 1678 e il 1681
  • Canone di Tokyo XIX sec.

L’ultima edizione, in 85 volumi di stile occidentale è divenuta lo standard di riferimento nei paesi di antica influenza cinese fu edita in Giappone (Tokyo, 1924-1929) e contiene 2184 testi più 3136 supplementi (sebbene alcuni di questi riguardino solo gli sviluppi nipponici). Inaugurata durante il periodo Taishō, è detta comunemente Canone dell’Era Taishō (Taishō Shinshū Daizōkyō).

Canone tibetano

Il Canone tibetano è l’opera che raccoglie i sutra, i tantra e in generale le scritture buddhiste ritenute importanti per la tradizione del Buddhismo Vajrayana in Tibet.

Il canone fu composto dal monaco Butön (Bu ston) (1290 – 1364) ed è diviso in due parti: Kangyur (bKa’-‘gyur) e Tengyur (bsTan’gyur). Nella prima sono raccolte le opere espressione diretta degli insegnamenti dei Buddha o dei Bodhisattva, nella seconda i commenti e gli scritti delle varie scuole e lignaggi del Buddhismo tibetano.
Giacché Butön aveva escluso dal canone gli insegnamenti Nyingmapa questi furono raccolti da Ratna Lingpa (Ratna gLing pa) (1403 – 1478) in un’opera intitolata Nyngma gyubdun (rNying ma rgyud’bum).

Il Canone tibetano fu dato alle stampe in tibetano la prima volta a Pechino nel 1411 e solo nel 1742 in Tibet in 333 volumi.

  • Kangyur
    • Vinaya
    • Prajñaparamita
    • Avatamsaka
    • Ratnakuta
    • Sutra
    • Tantra
  • Tengyur (comprende 3626 testi divisi per:)
    • Lodi
    • Commentari ai sutra
    • Commentari alla Prajñaparamita
    • Logica Madhyamika
    • Trattati Yogacara
    • Abhidharma
    • Commenti al Vinaya
    • Racconti
    • Manuali tecnici (medicina, chimica, grammatica ecc.)

Lo sforzo cui tendeva il canone fu quello di accettare nel Kangyur i testi di cui si possedesse l’originale sanscrito o pali, cassando i testi di cui esisteva oramai la sola traduzione tibetana o cinese. Così solo pochi sutra del Buddhismo dei Nikaya trovarono posto nel canone rispetto ai sutra del Mahayana. Il Vinaya stesso, il codice di regole monastiche, è quello sanscrito dei Mulasarvastivadin. Dato che ormai l’India era sotto il controllo islamico e tutte le università buddhiste e monasteri erano stati distrutti il canone tibetano rappresenta l’estremo tentativo di salvare la tradizione indiana del Buddhismo.



Categorie:H40.02- Religioni dell'Estremo Oriente

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