Shanfarā, ladro, assassino e poeta vagabondo
Thābit bin Malik (o Aws) più noto con il soprannome di al-Shanfarā al-Azdī ( الشنفرى الأزدي), o semplicemente come al-Shanfarā ( الشنفرى) (VI-VII sec.) è stato un poeta arabo pre-islamico degli aghriba, ossia dei “corvi”, così chiamati per via del colorito scuro della loro pelle.
A lui è attribuita il Poema in rima “lam” degli arabi (Làmiyyat al-‘Arab), così chiamato in contrapposizione a un’altra ode in rima “l” di nessun valore artistico chiamata Làmiyyat al-Agiam (Poesia in rima “lam” dei Persiani) del rimatore at-Tughray (XII sec.), è una delle più forti e suggestive composizioni giunte a noi dall’Arabia pagana, ritenuta opera di una delle figure di più alto rilievo nella tradizione storico-letteraria del periodo immediatamente precedente la missione profetica di Muhàmmad (fine del VI, inizio del VII sec. d.C.) e della cui sostanziale autenticità non v’è sufficiente motivo di dubitare, anche se, a partire dal IX sec. qualche critico la ritenne opera del filologo di Basra Khàlaf al-Ahmar (VIII sec.), ispirato da un antico frammento poetico scoperto in una silloge di poemi preislamici, la Hamàsa di Abu Tammàm.
Thābit bin Malik faceva parte dei Banū l-Iwās bin al-Ḥajr bin al-Aws, del lignaggio dei bin al-Ḥārith bin Rabīʿa, del ramo minoritario dei bin al-Hinw, appartenenti a loro volta al gruppo tribale dei bin al-Azd. Si ritiene che il suo soprannome, al-Shanfarā al-Azdī, significhi “dalle labbra tumide”. Sembra sia vissuto immediatamente prima della diffusione dell’Islam, tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo. Appartenente alla tribù degli Azd, fu dalla sua stessa tribù messo al bando (di solito ciò avveniva per gravi colpe, come un omicidio) ovvero preso prigioniero dai bin Shabāba bin Fahm bin ʿAmr dei Banū Qays bin ʿAylan per essere poi riscattato non già dalla sua tribù ma da quella dei bin Salāmān, anch’essi dei bin al-Azd.
Shanfarā avrebbe condotto un’esistenza solitaria nell’inospitale deserto dell’Hijaz. La leggenda vuole inoltre che egli avesse giurato di vendicarsi dei torti subiti dai membri della tribù che lo aveva riscattato, rei di avergli negato il matrimonio con Quʿsūs, figlia di un sayyid dei bin Salāmān, uccidendo cento dei suoi antichi compagni. Sarebbe però morto dopo averne uccisi solo novantanove, anche se il suo teschio, insepolto e sporgente dal suolo, avrebbe causato la caduta e la morte del centesimo, permettendo così al poeta di compiere, postuma, la propria vendetta.
La sua poesia è quella di un ṣuʿlūk, un “poeta vagabondo e brigante”, il che lo accomuna ad altri grandi personaggi del mondo poetico della Jāhiliyya, come suo zio materno Taʾabbaṭa Sharran o ʿUrwa bin al-Ward, anch’essi reietti dalla loro tribù e raminghi solitari per il deserto.
Pochi sono i versi, circa 191, che di lui ci rimangono[1]. In particolare, la sua poesia più celebre è, appunto, la lāmiyyat al-ʿArab: “Poesia in rima lām[2] degli Arabi”, una qasida di 68 distici, notissima fra gli arabi, per i suoi versi incalzanti e per il suo rude e folgorante incipit, in cui descrive se stesso e la propria vita nel deserto:
(AR) « Aqīmū banī ummī ṣudūra maṭiyyikum fa-innī ilā qawmin siwākum laʾamyal[u …] » |
(IT) « Uomini della mia tribù, fate drizzare i petti delle vostre cavalcature (e partite), ché io verso altra gente che non voi son più incline […] » |
oppure quando descrive la fame che sempre lo accompagnava in quelle inospitali contrade:
(AR) « Udīmu miṭāla l-jūʿi ḥattā umītahu wa-aḍribu ʿanhu ḏ-ḏikri ṣaqtaḥan fa-aḏhal[u] wa-astaffu turba al-arḍi kayla yarā lahu ʿalayya min aṭ-ṭawli [i]mrūʾun mutaṭawwil[u] » |
(IT) « Io inganno ostinatamente la fame tanto da ammazzarla, e la passo sotto silenzio sì da distrarmene. Arrivo a trangugiare il limo della terra, perché per la mia fame il ricco benefico non debba con la sua generosità guardarmi dall’alto in basso » |
Shanfarā – come ha scritto Eros Baldissera- ci trasmette attraverso il suo poema un concentrato di acute e precise osservazioni sulla vita del deserto, con un linguaggio di estrema tensione e con tetri toni sommessi di amarezza, di selvaggio risentimento e una velata satira verso le presuntuose comunità tribali e i loro poeti viziati e coccolati. Vi descrive gli animali che incontra nella sua vita raminga e solitaria nei roventi deserti d’Arabia: sciacalli, pantere, iene, compagni a lui più consoni degli uomini. Si fa vanto del suo coraggio, della sua sdegnosità, della sua posizione di fuorilegge, che ripone fiducia solo nel proprio cuore, nella spada e nell’arco ronzante, incurante della fame che gli contorce le viscere nel ventre vuoto e del vento che rallenta la sua marcia. Con rapidi e decisi colpi di pennello dipinge la bevuta mattutina degli uccelli qata che egli ha preceduto di buonora alla cisterna, le sue sanguinose scorribande notturne negli accampamenti in cerca di cibo, il suo vagare, spettinato e sporco coll’abito a brandelli, sotto il sole bruciante fino alla solenne scena finale che ci mostra il poeta ritto al tramonto sui monti yemeniti tra le capre montane che gli passano tranquille attorno quasi egli fosse un familiare stambecco.
È la sua una poesia piena di immagini naturalistiche, come quando descrive le “giornate di canicola, dal barbaglio fondente, in cui le vipere si torcono sui ciottoli arsi dal sole”, o quando paragona la propria vita a quella dello sciacallo:
« E parto al mattino dopo un magro pasto, così come parte un grigio-argenteo sciacallo dai magri fianchi, che passa di deserto in deserto; incede errando affamato contro vento, calando sui fondovalle in trotterellante corsa, e quando il cibo lo distoglie da dove prima lo cercava, egli lancia un appello e gli rispondono gli smagriti suoi simili; sottili come falce lunare, bianco-grigi nei volti, vibranti come frecce agitate da un giocatore di maysir[3] » |
(traduzione di Francesco Gabrieli) |
Note
- ^ Sue sarebbero state anche una tāʾiyya, ovvero poesia in rima tāʾ (la lettera “ti” dell’alfabeto latino) e una fāʾiyya, ovvero poesia in rima fāʾ (corrispondente alla lettera “effe”).
- ^ La elle dell’alfabeto arabo.
- ^ Un procedimento per la spartizione delle carni edibili di un animale, per lo più un dromedario, mediante una cerimonia di estrazione a sorte (qurʿa) di frecce o bastoncelli (belomanzia).
Bibliografia
- Abū l-Faraj al-Iṣfahānī, Kitāb al-aghānī (Libro dei canti), XXI, Il Cairo, Būlāq, 1905
- al-Shanfarā, Dīwān, in: Dīwān al-ṣāˁālīk (Canzoniere dei poeti del deserto), Beirut, 1992
- Shànfara, Il bandito del deserto, a cura di Francesco Gabrieli, Firenze, Fussi, 1947
- Francesco Gabrieli, “Taʾabbaṭa Sharran, Shanfarā, Khalaf al-Aḥmar”, in: Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, serie VIII (1946), I, pp. 40-69
Categorie:G20.01- Lingua e Letteratura araba - Arabic Literature
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