Il situazionismo punk delle Pussy Riot
Le Pussy Riot arrivano sul grande schermo e la loro lotta contro il presidente Putin approderà anche a Hollywood: esce infatti nelle sale italiane il 12 dicembre il documentario “Pussy Riot – A punk prayer”, di Mike Lerner e Maxim Pozdorovkin, che ha ricevuto un premio speciale della giuria al festival di Sundance ed è in corsa per l’Oscar al miglior documentario.
“Pussy Riot – A punk prayer” parte dalle immagini dell’esibizione del gruppo di femministe anti-Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca, nel febbraio 2012, e segue le vicende di Nadia, Masha e Katia, fino alla condanna a due anni di reclusione. I genitori delle tre attiviste raccontano la loro storia, che ha sullo sfondo la storia della Russia degli ultimi 20 anni. Alle immagini dell’arresto e del processo, si alternano quelle del dietro le quinte dei concerti improvvisati dalle musiciste punk, ma soprattutto si mostrano le proteste, le manifestazioni, il clamore, che la loro vicenda ha creato dentro e fuori la Russia.
Fuori dalla Russia le Pussy Riot hanno avuto il sostegno di artisti come Madonna, Yoko Ono, Bjork, ma nel documentario si vede che nel Paese del presidente Putin la popolazione è divisa a metà: tante sono state le manifestazioni a loro favore durante il processo, e tante quelle a sostegno della chiesa ortodossa, offesa, secondo i credenti, da quella esibizione nella cattedrale di Mosca. Nel frattempo sono diventate un simbolo che forse arriverà anche alla cerimonia degli Oscar.
l soggiorno dietro le sbarre non ha spento lo spirito di Maria Alyokhina, 25 anni, una delle due Pussy Riot liberate il 23 dicembre.
Appena rilasciata, Alyokhina ha denunciato come una «farsa» l’amnistia concessa da Vladimir Putin in occasione dei 20 anni della Costituzione russa. E grazie alla quale è uscita di galera, oltre all’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, anche Nadezhda Tolokonnikov, Nadia, il volto più noto del gruppo punk per cui si è mobilitato il mondo intero.
Sposata, 24enne, madre di una bambina, Nadia era stata ricoverata a lungo nell’ospedale carcerario di Krasnoiarsk, in Siberia, ammalata di tubercolosi a seguito di due scioperi della fame.
Si è conclusa così, almeno per il momento, la storia iniziata il 3 marzo 2012, quando Nadia e Maria furono arrestate dopo aver inscenato una preghiera blasfema nella cattedrale di Mosca, il cui ritornello recitava all’incirca: «Madonna, liberaci da Putin». La condanna era arrivata ad agosto dello stesso anno: due anni di reclusione per teppismo.
Insieme con loro aveva ascoltato il verdetto anche Ekaterina Samoutsevitch, 31 anni, anche lei membro del collettivo punk: ha scontato sei mesi di custodia cautelare, prima che il giudice riconoscesse che non aveva preso parte alla protesta incriminata.
Quella preghiera, subito finita su Youtube, è stata visualizzata 2,4 milioni di volte: mostra tre ragazze incappucciate che cantato la loro rabbia contro la rielezione del presidente Vladimir Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Non una chiesa qualsiasi, ma la più importante della Russia. Dove si dice che sia conservato uno dei chiodi con cui venne crocefisso Gesù Cristo.
Il collettivo punk Pussy Riot è nato nell’autunno 2011 da una costola del collettivo art-situazionista Voinà (in russo: guerra) noto per aver proiettato l’immagine di un pene di oltre 60 metri sulla facciata della sede dei servizi segreti russi a San Pietroburgo. Il gruppo musicale è formato da un numero imprecisato di ragazze: Ekaterina Samutsevich, Marija Aljokhina e Nadia Tolokonnikov ne rappresentano soltanto una parte, si pensa che in totale le componenti siano 11.
Prima di essere spedita in Siberia, Nadia aveva definito le Pussy Riot come «parte del movimento anti capitalistico globale, formato di anarchici, trotzkisti, femministe e autonomisti», precisando che le performance del gruppo possono essere definite «come arte dissidente o come azione politica che coinvolge l’arte». In altre parole, «una forma di attività civica nel mezzo delle repressione di un sistema politico che usa il suo potere contro i diritti umani di base le libertà civili e politiche».
Le Pussy Riot hanno un’età compresa tra i 20 e 32 anni, si definiscono «lavoratrici della cultura di protesta», si battono per «l’emancipazione sessuale» e rimpiangono il ’68 della liberazione dei costumi che nell’Unione sovietica non poteva trovare spazio per via delle politiche repressive del regime.
«L’emancipazione sessuale avrebbe potuto svilupparsi nel nostro Paese almeno finché c’era Lenin», ha spiegato Garadzhà Matveeva, portavoce del gruppo intervistata da Lettera43.it nel gennaio 2012.
«Nelle nostre canzoni usiamo allusioni sessuali», ha proseguito sarcasticamente Garadzhà, «e un linguaggio volgare e aggressivo. Ma seguiamo soltanto il solco tracciato dai testi punk in tutto il mondo».
Le prime performance le misero in atto nello scenario suggestivo delle stazioni della metropolitana di Mosca, con settimane di preparazione: ogni azione di guerriglia doveva essere attentamente ripresa, per essere poi pubblicata in Rete e diventare virale.
«Tutte insieme ci mettiamo a pensare alla canzone, scriviamo la musica, prendiamo appunti. Scegliamo i costumi, studiamo le movenze e il ballo, ci costruiamo i nostri altoparlanti ed elaboriamo gli effetti speciali. Usiamo i nostri canali internet, di quelli ufficiali non ci fidiamo e i nostri telefoni sono sotto controllo», aveva detto all’epoca.
Con la detenzione di Nadia e Maria, nulla si è più saputo della band. «Il gruppo, naturalmente, esiste ancora», ha detto Maria non appena liberata, il 23 dicembre. E potrebbe riprendere la propria azione di denuncia: «Dovremmo incontrarci e risolvere questa questione». Magari, però, fuori dai confini russi.
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