La logica degli stoici
Il concetto di logica
La logica stoica comprende sia una riflessione molto dettagliata sulla forma dei ragionamenti, sia una teoria generale della conoscenza, legata strettamente alla concezione dell’anima. Il primo aspetto venne sviluppato soltanto a partire da Crisippo, il quale riprese e rielaborò temi originariamente studiati dalla scuola megarica (in particolare Eubulide di Mileto, Diodoro Crono e Filone di Megara). Senza dubbio essi mostrano un’analogia con le ricerche dell’Organon di Aristotele: in entrambi i casi si tratta infatti di una logica «formale», che prende a proprio oggetto la sola forma del pensiero a prescindere dai suoi contenuti. Ciononostante la dottrina stoica, per quanto la possiamo ricostruire a partire dalle testimonianze frammentarie, costituisce una forma nuova e originale, il cui valore solo negli ultimi decenni è stato riscoperto dopo secoli di disinteresse o fraintendimento.
La prima innovazione degli stoici consiste anzitutto nel considerare la logica una vera e propria parte integrante della filosofia, anziché semplicemente un suo «strumento» (órganon), come voleva Aristotele (o perlomeno i suoi discepoli). La filosofia infatti si serve sì della logica, ma questa a sua volta non fa parte di nessuna altra scienza: dunque è una parte della filosofia. Tale concezione viene sostenuta però soprattutto dall’individuazione di una peculiare materia della logica, che è costituita dai «ragionamenti»:
La ricerca logica non ha né la stessa materia né lo stesso fine [delle altre parti della filosofia]: la sua materia sono i ragionamenti (lógoi), il fine è la conoscenza dei metodi dimostrativi, e tutte le altre indagini concorrono a sviluppare una dimostrazione scientifica. Dunque non può essere messa sotto nessuna delle due altre parti della filosofia. Infatti, se anche la logica indaga sulle cose umane e divine (ce ne serviamo infatti quando discutiamo di cose umane o divine), non si occupa esclusivamente di quelle umane (come le sezioni della filosofia pratica [etica]), né esclusivamente di quelle divine (come le sezioni di quella teoretica [fisica]). Dunque non è una semplice sezione della filosofia, ma la sua terza parte (SVF II.49 = FDS 28).
Questo giustifica anche il termine di «logica» (logiké), che venne messo in uso proprio dagli stoici e significa evidentemente «scienza del logos». Questa concezione viene precisato tramite una importante distinzione che ad Aristotele era in parte ignota:
Gli stoici dicono che questi tre elementi sono connessi fra di loro: il significato (semainómenon), il significante (semáinon) e l’evento (tynchánon). Il significante è il suono stesso, ad esempio «Dione»; il significato è l’entità manifestata e che apprendiamo in quanto coesiste con il nostro pensiero, e che gli stranieri non capiscono, sebbene odano il suono; l’evento è ciò che esiste all’esterno, ad esempio Dione stesso. Di questi, due sono corporei, e cioè il suono e l’evento, e una è incorporea, e cioè l’entità significata, l’esprimibile (lektón), che [solo] è vero o falso (SVF II.166 = FDS 67).
L’oggetto peculiare della logica è costituito per gli stoici solo dagli esprimibili (lektá). La distinzione stabilita tra «eventi» ed «esprimibili» corrisponde sostanzialmente a quella moderna tra «estensione» e «intensione». Per mostrarne la differenza, prendiamo come esempio la proposizione «Gli uomini sono mortali». Da un punto di vista estensionale, essa viene interpretata così: «L’insieme degli uomini è incluso nell’insieme dei mortali». Da un punto di vista intensionale viene invece spiegata così: «Il concetto di uomo comprende il concetto di mortale». Gli stoici, ritenendo che la proposizione in sé non abbia alcun corrispondente «reale» (al contrario dei suoi termini), ma sia solo un lektón, scelsero senza incertezze per la loro logica un’interpretazione intensionale.
Nella testimonianza appena citata va osservato il termine «evento» (tynchánon): esso rappresenta il primo caso della tendenza tipica dello stoicismo (e spesso fatta oggetto di ironia da parte dei contemporanei) a coniare nuovi termini. Il motivo di questo conio (come degli altri) è però significativo: «chiamano le cose “eventi”, perché il loro fine è quello di avvenire» (SVF II.236 = FDS 681). Il senso esatto di questa definizione si vedrà all’interno della fisica, e costituisce uno dei numerosi casi di stretto legame tra le varie parti della filosofia stoica.
Le proposizioni
Dove la logica stoica supera nettamente l’analitica aristotelica, creando praticamente un campo nuovo, è nello studio della proposizione (chiamata axíoma). La sua caratteristica fondamentale è quella di poter essere vera o falsa, ovvero di poter «essere valutata» (axióusthai). Tale definizione non soltanto costituisce una premessa indispensabile per la logica, ma non manca (come vedremo) di ripercussioni sulla concezione della realtà. Esse diventano importanti soprattutto in riferimento al problema dei «futuri contingenti», riguardo ai quali gli stoici sostengono un’opinione difforme da quella di Aristotele:
Le proposizioni contraddittorie relative al futuro gli stoici le valutano esattamente come le altre. Come infatti sono quelle relative ad eventi presenti e passati, così affermano che sono anche le future, esse stesse e le loro parti. O è vero il «sarà», o il «non sarà», se è necessario che sia o vera o falsa: le cose future sono determinate infatti nello stesso modo. E se domani ci sarà una battaglia navale, è vero dire che ci sarà; se non ci sarà, è falso dire che ci sarà. O ci sarà o non ci sarà, dunque una delle due affermazioni o è vera o è falsa (SVF II.198 = FDS 881).
Tra le proposizioni, una prima distinzione fondamentale è tra semplici e complesse. Semplice è la proposizione che contiene solo un predicato (per esempio «è giorno»), complessa è quella costituita dal collegamento di più proposizioni tramite connettivi logici (per esempio «è giorno e piove»). Ovviamente, i connettivi possono unire proposizioni a loro volta complesse. Si osservi che la negazione di una proposizione semplice (per esempio «non è giorno»), che oggi viene classificata tra le proposizioni complesse, era invece considerata semplice dagli stoici.
Ora, la loro intuizione fondamentale è che i connettivi logici (non, e, o, se … allora, ecc.) vanno considerati operatori, simili, per esempio, ai comuni operatori aritmetici (+, –, ×, /). Mentre però questi ultimi operano su valori numerici, i connettivi logici operano sui valori di verità che le proposizioni possiedono in quanto lektá. Il caso più semplice è quello della negazione logica: quando essa è applicata ad una proposizione vera genera una proposizione falsa, e viceversa. Riguardo ai connettivi che collegano due proposizioni bisognerà considerare quattro casi: due proposizioni entrambe vere, due entrambe false, la prima vera e la seconda falsa, e viceversa. Definire una connessione logica equivale così a scrivere la sua «tavola di verità», cioè precisare quale sia il valore di verità della proposizione complessa in corrispondenza dei quattro casi ora detti. Per esempio, una proposizione congiuntiva («è giorno e piove») sarà complessivamente vera solo quando entrambe le proposizioni congiunte sono vere. In questo modo gli stoici vennero definite diverse connessioni. Eccone le più importanti, delle quali diamo a sinistra il nome e a destra, sulla stessa riga, la tavola di verità:
vera | vera | falsa | falsa | |
vera | falsa | vera | falsa | |
congiuntiva (… e …) | vera | falsa | falsa | falsa |
disgiuntiva inclusiva (… o …) | vera | vera | vera | falsa |
disgiuntiva esclusiva (o solo … o solo …) | falsa | vera | vera | falsa |
condizionale (se … allora …) | vera | falsa | vera | vera |
condizionale doppia (solo se … allora …) | vera | falsa | falsa | vera |
Un paio di osservazioni. La prima riguarda le due differenti disgiunzioni, che né in greco né in italiano sono chiaramente distinte nel linguaggio naturale. Quella esclusiva esclude, appunto, la verità di entrambe le proposizioni disgiunte (per esempio: «partirò lunedì o martedì», ma non i due giorni contemporaneamente); quella inclusiva invece no (per esempio: «se c’è pioggia o neve bisogna guidare con prudenza», e anche se ci sono le due cose contemporaneamente). La distinzione tra le due è facile in latino, dove l’esclusiva s’indica con aut e l’inclusiva con vel. Come si vedrà, gli stoici, contrariamente all’uso moderno, usavano per lo più la disgiunzione esclusiva.
Una seconda osservazione riguarda la proposizione condizionale (o implicazione). La tavola definisce la cosiddetta «implicazione materiale» o «filoniana», dal nome del logico megarico Filone. Essa risulta falsa solo nel caso che ad un antecedente vero segua un conseguente falso, e ciò indipendentemente dal contenuto delle proposizioni connesse. Per esempio, tutte e tre queste proposizioni risultano vere: «se 2 è pari, allora è un numero primo», «se la luna è verde, allora il cielo è azzurro», «se Aristotele è cinese, allora Platone è turco». Tale uso è molto più ampio di quello del linguaggio naturale, in cui invece una proposizione condizionale viene considerata vera solo quando in più c’è un nesso reale tra le due proposizioni (come per esempio nei sillogismi aristotelici). Questa è detta «implicazione formale», e di essa due varianti furono definite da Diodoro Crono e da Crisippo. Il problema era molto dibattuto, al punto che un bibliotecario di Alessandria del II sec. riferisce: «Anche i corvi gracchiano sui tetti su quali implicazioni siano corrette» (FL 20.06). La discussione continuerà nel Medioevo, quando Paolo Veneto (1368-1429) elencherà ben dieci significati differenti dell’implicazione, e arriverà fino ai giorni nostri.
Con la definizione dei connettivi logici viene così iniziata quella che oggi è chiamata logica proposizionale e che in età moderna venne rifondata da diversi logici, tra i quali spicca Gottlob Frege. In essa, al contrario della logica dei predicati (di cui la sillogistica aristotelica costituisce una parte), non viene considerata la struttura interna delle proposizioni, ma solo il loro valore di verità. Tramite le tavole è possibile «calcolare» una proposizione comunque complessa, ovviamente una volta che sia noto il valore di verità delle proposizioni semplici.
I ragionamenti conclusivi
Questa chiara nozione permise di formulare una distinzione che ad Aristotele era sfuggita: quella tra ragionamenti conclusivi e proposizioni vere (in linguaggio moderno: tra deduzioni corrette e leggi logiche):
Un ragionamento (lógos) è un sistema costituito da premesse (lémmata) e da una conclusione (epiphorá). Le premesse sono le proposizioni accettate per la dimostrazione della conclusione, la conclusione è la proposizione dimostrata a partire dalle premesse. Prendiamo ad esempio il seguente ragionamento:
Se è giorno allora c’è luce;
ma è giorno;
dunque c’è luce.
In esso c’è luce è la conclusione, le altre proposizioni sono le premesse (FDS 1038).
Alcuni ragionamenti sono conclusivi (synaktikói), altri non conclusivi. Sono conclusivi quando la proposizione condizionale che inizia con la congiunzione delle premesse del discorso e finisce con la sua conclusione è vera. Ad esempio, il ragionamento citato è conclusivo, perché alla congiunzione delle premesse (<è giorno> e ) segue c’è luce, in questa proposizione condizionale: se <è giorno> e , allora <c’è luce>. Non conclusivi sono i ragionamenti che non sono fatti così (FDS 1058).
Più esplicitamente, un ragionamento conclusivo corrisponde ad una proposizione condizionale sempre vera, qualunque sia il valore di verità delle proposizioni semplici che la compongono. In generale, oggi viene chiamata legge logica una proposizione complessa (anche non condizionale) che è vera indipendentemente dai valori di verità delle proposizioni semplici. Per esempio, «p o non p» è una legge logica. Più chiara che in Aristotele è anche la distinzione tra ragionamenti conclusivi e conclusioni vere:
Fra i ragionamenti conclusivi alcuni sono veri [nella conclusione], altri falsi. Sono veri quando non solo la proposizione condizionale costituita dalla congiunzione delle premesse e dalla conclusione è vera (come già detto), ma è vera anche la congiunzione delle premesse, cioè l’antecedente della proposizione condizionale. E la congiunzione vera è quella che ha tutti gli elementi veri (FDS 1064).
Gli indimostrabili
Come Aristotele aveva costruito la sua sillogistica a partire dai modi della prima figura, ritenuti evidenti, così anche gli stoici stabilirono cinque ragionamenti «indimostrabili». Li enumeriamo, indicando con p e q due generiche proposizioni, mentre tra parentesi riportiamo i nomi che saranno assegnati nel Medioevo e che sono ancor oggi talvolta usati:
1. Se p allora q; ma p; dunque q (modus ponendo ponens).
2. Se p allora q; ma non q; dunque non p (modus tollendo tollens).
3. Non (p e q); ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).
4. O solo p o solo q; ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).
5. O solo p o solo q; ma non p; dunque q (modus tollendo ponens) (SVF II.241 = FDS 1036).
Le idee sul ruolo di questi princìpi erano molto chiare:
Gli indimostrabili sono quelli di cui dicono che non hanno bisogno di dimostrazione per essere sostenuti, ma piuttosto servono a dimostrare che gli altri ragionamenti sono conclusivi. … Essi ne immaginano molti, ma ne pongono particolarmente cinque, a cui pare che si possano ricondurre tutti gli altri (FDS 1096).
Non sapendo quali regole venissero ammesse per dedurre nuovi «ragionamenti» (a causa della frammentarietà delle fonti), non possiamo giudicare se venne effettivamente costruita una logica proposizionale completa, in cui cioè tutte le proposizioni vere siano dimostrabili. Pare certo però che venne almeno chiaramente intuìto il concetto di completezza di un sistema logico. Esso svolgerà un ruolo fondamentale nella logica contemporanea, quando Kurt Gödel (1906-1978) riuscirà sorprendentemente a dimostrare che nessun sistema logico che raggiunga una certa potenza espressiva può essere completo.
Ci si potrebbe domandare quale sia l’utilità di stabilire indimostrabili e regole di deduzione se — come già detto — l’uso delle tavole è sufficiente per accertare la verità o falsità di qualsiasi proposizione. In realtà, le tavole di verità diventano inutilizzabili appena si esce dal dominio della logica proposizionale e si entra in quello della logica dei termini. Per esempio, i sillogismi di Aristotele non potrebbero essere dimostrati così. Ciò significa che a partire da un certo livello di complessità non esiste più nessun modo puramente meccanico per dimostrare teoremi.
Il criterio della verità
Così come nell’analitica di Aristotele, anche nella logica stoica si presenta il problema del criterio di verità da cui poter prendere le mosse: un ragionamento corretto mi assicura infatti solo che a premesse vere seguiranno conclusioni vere. La risposta stoica a questo problema in realtà risale a Zenone e dunque precede l’elaborazione formale della logica da parte di Crisippo. In essa viene anzitutto respinta la possibilità di individuare il criterio della verità in un «universale», cosa che, seppure in forme molto diverse, era stata fatta sia da Platone sia da Aristotele:
I concetti non sono né qualcosa né qualità, ma immagini (phantásmata) dell’anima che sono quasi-qualcosa e quasi-qualità: queste dagli antichi venivano chiamate «idee». Infatti le idee sono da annoverare tra i concetti, per esempio di uomini, cavalli, e più in generale di di tutti gli animali e le altre cose delle quali diciamo che ci sono idee. I filosofi stoici affermano che sono prive di esistenza: dei concetti partecipiamo, i termini (i cosiddetti «appellativi») li troviamo (SVF I.65 = FDS 316).
Tale concezione è coerente sia con lo spirito fondamentale della logica stoica che, come abbiamo visto, ha ad oggetto gli eventi (singolari) espressi dalle proposizioni, sia con la concezione fisica che, come vedremo, riconosce realtà in senso pieno solo alle cose corporee. Il criterio di verità non andrà dunque cercato in qualche caratteristica dei concetti, ma piuttosto delle percezioni che ci fanno conoscere eventi singolari. Indicando con «rappresentazione» (phantasía) l’impronta esercitata nell’anima tramite i sensi da un evento esterno, gli stoici denominarono «comprensiva» (kataleptiké) quella rappresentazione che porta così evidentemente i segni della corrispondenza con la realtà da rendere impossibile rifiutarle l’«assenso» (synkatáthesis), cioè non riconoscerla come vera:
Delle rappresentazioni vere alcune sono comprensive, altre no. Non comprensive sono quelle che sopraggiungono ad alcuni a seconda della passione che subiscono. Ad esempio molti, delirando o in preda alla malinconia, hanno una rappresentazione vera che però non è comprensiva: essa proviene dall’esterno e così casualmente, di modo che essi spesso non riescono a convalidarla né a darle il loro assenso. La rappresentazione comprensiva, invece, è quella che si ricalca e si imprime a partire da qualcosa di esistente e in conformità con l’esistente, e non sarebbe com’è se provenisse da qualcosa che non esiste.
Affermando che tale rappresentazione è sommamente capace di riprodurre gli oggetti e che ne ricalca perfettamente tutte le proprietà, affermano che possiede ciascuna di queste caratteristiche. La prima è di derivare da qualcosa di esistente … , la seconda di non solo derivare, ma anche corrispondere all’esistente stesso … e inoltre di ricalcare e di imprimere, affinché restituisca perfettamente le proprietà degli oggetti rappresentati (SVF II.65 = FDS 273, 333).
Il criterio introdotto degli stoici facilmente poteva essere accusato di essere circolare e inutile: se la rappresentazione comprensiva si distingue dalle altre perché corrisponde con la realtà, come usarla come criterio per riconoscere appunto la realtà? Il senso di questo criterio si capisce però meglio quando viene visto sullo sfondo della polemica contro Platone e Aristotele: in essi la questione acuta della teoria della conoscenza consiste in come raggiungere l’universale a partire da un’esperienza che è sempre particolare. Affermare come punto di partenza la rappresentazione comprensiva significa eliminare questo problema sostenendo il primato del singolare.
Articolo tratto dal sito:
http://mondodomani.org/mneme/s1st0.htm#par21
Si tratta si un estratto più ampio del Prof. Giovanni Salmeri
Categorie:K30- [LOGICA], K30.02- Logica e Teorie del ragionamento
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