Occupy Gezi Park- Comunque vada a finire, è nata una nuova Turchia

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Occupy Gezi Park- Comunque vada a finire, è nata una nuova Turchia

Il 31 maggio 2013  uno sparuto gruppo di persone si è radunato tra Piazza Taksim e l’adiacente parco Gezi, nello storico quartiere di Beyoğlu. Due anni prima le autorità locali hanno approvato la costruzione di un grande centro commerciale al posto del parco Gezi. Il nuovo edificio dovrebbe prendere la forma di un’antica caserma ottomana demolita nel 1940, la caserma degli artiglieri di Halil Pasha. La difesa del parco sarebbe rimasta limitata alla questione del piccolo parco, se non fosse stato per il pesante intervento della polizia che una sera ha addirittura bruciato le tende delle persone che si erano accampate lì. Le proteste si sono allargate a macchia d’olio in altre città e hanno trasformato la contestazione ambientalista in qualcosa di molto più grande. Piazza Taksim e il Parco Gezi hanno assunto un ruolo simbolico potente, ma ogni città ha ora i suoi luoghi d’incontro. Nella capitale Ankara, dove ieri si sono ancora registrati pesanti scontri, ci si ritrova al parco di Kuğulu e lungo via Tunalı Hilmi, in un quartiere pieno di ambasciate. La presenza di funzionari internazionali e turisti rende la repressione meno pesante, ma in altri centri come Smirne (o Izmir) pare che la polizia sia più repressiva. Nel caso di Antiochia (o Antakya) il problema è la vicinanza al conflitto siriano. Avere problemi ad Antiochia potrebbe essere effettivamente un problema di sicurezza nazionale.

Dopo 11 anni la Turchia si ribella al potere di Recep Tayyip Erdogan. Le ultime virate islamiche del governo hanno aumentato lo scontento e quella che è iniziata come una manifestazione di taglio ambientalista in difesa del parco Gezi, è diventata una rivolta contro linee politiche non più “islamico-moderate”. Si contano i morti e la situazione sembra peggiorare. Ha scritto Bernard Guetta su “Internazionale”: “Questo immenso movimento – formato da decine di migliaia di persone così diverse tra loro ma unite dallo stesso entusiasmo nelle strade di Istanbul, Ankara e altre città turche – rappresenta soltanto un episodio, ma non bisogna lasciarsi ingannare. Come già accaduto negli anni sessanta in cinque continenti, la protesta ha segnato un importante punto di svolta, e lentamente finirà col cambiare la Turchia, il mondo musulmano e l’Europa”.

Pinguini, uccellini e ballerini con maschere anti-gas: i simboli della protesta turca testimoniano la creatività dei manifestanti di Piazza Taksim. Questa è la loro risposta contro la censura dei media. Per questo molti manifesti ammonivano: “The revolution will not be televised”.

In Turchia i manifestanti parlano a nome di un’intera generazione. I tifosi delle grandi squadre di calcio fraternizzano tra loro e con la borghesia liberale, la sinistra, le femministe e persino i sostenitori della causa omosessuale, e questo significa che i giovani, entrati nell’età adulta durante il dominio degli islamo-conservatori e completamente estranei all’epoca dei colpi di stato militari, sono talmente in confidenza con la democrazia, le libertà e la tolleranza che caratterizzano la modernità europea da non poter più accettare il puritanesimo, il tradizionalismo e l’ordine morale difesi dall’Akp, il partito al potere. La società turca è cambiata, e in futuro cercherà nuove forze politiche a sinistra o al centro, lontane sia dai militari e dalla loro difesa violenta della laicità sia dalla grande formazione conservatrice e clericale costituita dagli islamisti.

Non ci si aspettava che la Turchia scoppiasse nelle proteste. Il Paese sta crescendo ancora e si sta forse arrivando alla fine della guerra civile col PKK. Eppure alcuni criticavano il modello di sviluppo del partito di Erdoğan, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP). È vero che la politica neoliberista ha portato la Turchia al 17° posto dell’economia mondiale in termini di PIL, ma negli ultimi anni la crescita è rallentata, passando dall’8% al 2%, mentre l’inflazione è rimasta fissa al 7%. Le proteste, però, si stanno concentrando sull’indebitamento delle famiglie, sull’inasprirsi delle disuguaglianze sociali e sulla questione delle libertà civili e dei diritti socio-economici.

I laici puntano il dito sulla restrizione alla vendita di bevande alcoliche, i liberali alla mancanza di libertà nei media, i curdi per la perdurante repressione nei loro confronti. Inoltre, a livello economico si stanno costruendo grandi opere invasive del territorio come il centro commerciale di Gezi e il terzo ponte sul Bosforo. Gli Indignados in Spagna avevano bandito il consumo di droghe e alcol nei luoghi della protesta. Nelle piazze turche, invece, si possono vedere birre in mano a moltissime persone, perché la birra a Taksim è diventata segno di protesta e contestazione. Kenan, un insegnante di inglese ad Ankara lo chiarisce subito: “It’s not for the sake of drinking or getting drunk, it’s because they attempted to ban the sale of alcohol. They’re trying to decide for our private lives.” E scherzando aggiunge “We’re expecting them to tell us when we can have sex!”.

Il ruolo di Twitter e la creatività dei Chapullers

Lo slogan “the revolution will not be televised” non è populista. Chi si trova a casa, infatti, non può fare affidamento alla televisione. Orkide Izci, giornalista turca in Italia da 6 anni, non usa mezzi termini: “i media mainstream non passano tutte le notizie e spesso si auto-censurano per una commistione di interessi economici con il partito di Erdoğan. Chi non ha accesso a internet per motivi geografici o generazionali fa affidamento alla televisione per le informazioni, ma non riesce a seguire gli eventi. Per citare un solo esempio, la sera del 2 giugno, mentre in piazza c’erano pesanti scontri, uno dei palinsesti più importanti del Paese, la CNN Turk, ha mandato in onda per ben due ore un documentario sui pinguini. Questo sta generando percezioni differenti tra città e campagna su ciò che sta accadendo”.

Per questo i pinguini sono diventati un simbolo di “resistenza”, un termine divenuto quasi parola d’ordine e nato proprio dalle piazze turche. Su Twitter, infatti, uno degli hashtag di riferimento è proprio #direnGezi o#DirenGeziParki, cioè “la resistenza di Gezi” (senza contare poi i vari #DirenIzmir, #DirenHatay, OccupyIstanbul e #OccupyGezi). È da queste parole chiave che si possono ricavare le testimonianze e le immagini più forti delle manifestazioni. Erdoğan tiene sotto scacco il sistema mediatico grazie alla legge anti-terrorismo. Con questa legge lo Stato imprigiona molti giornalisti indipendenti e viene utilizzata per accusare di cospirazione chiunque scriva contro il governo. La questione della libertà nei media non riguarda più solo la questione curda, ma è diventata una vera e propria questione di libertà politica. Kenan non è d’accordo sulla creazione di un’organizzazione dei manifestanti anche per questo: “Ci sono molte assemblee, ma la situazione è pericolosa ora, si può perdere il lavoro facilmente. Potrebbe essere più efficace stabilire una sorta di organizzazione, ma ci si esporrebbe maggiormente alle forze dell’ordine, perché si potrebbe essere accusati di far parte di un’organizzazione che attenta allo Stato, alla stregua di terroristi”.

Il problema di Erdoğan in questo momento è che i social media stanno passando tutte le notizie, immagini, video e racconti delle manifestazioni. Ecco perché il primo ministro turco ha tentato di delegittimare Twitter, definendolo menzognero, pieno di estremisti, “il problema più grave per la società turca”. Come non dargli torto? In fondo Erdoğan sta parlando solo a quella parte di società che lo segue e lo vota, cioé la base del suo potere. Quindi le sue parole significano: “Twitter è la più grande minaccia al sistema di potere che reggo”.

La risposta della piazza a questa delegittimazione passa per una continua riappropriazione di termini, immagini e oggetti. Il 2 giugno, per esempio, è stato coniato un neologismo dopo che Erdoğan ha dichiarato di non farsi condizionare o intimidire da un gruppetto di vandali e saccheggiatori, che in turco si dice “çapulcu”. Da lì si è creato subito il termine “Chapuller” e di fare “Chapulling”, nel senso di scendere in piazza e protestare pacificamente, rovesciando totalmente il significato originario. C’è anche spazio per una riappropriazione artistica. La risposta migliore è arrivata da Kivanch K, che ha cambiato il testo “Enjoy the silence” in “Enjoy the Tear-Gas”, in questo caso prendendo di mira l’enorme uso di gas lacrimogeno e spray al peperoncino da parte della polizia. Anche la maschera anti-gas è diventato un simbolo di resistenza: l’immagine più forte è la danza religiosoa del “whirling dervish” mentre indossa una maschera anti-gas.

Anche Facebook è importante, ma ha un peso nettamente inferiore, perché moltissimi profili corrispondono a persone reali. Esporre il proprio pensiero su Facebook quindi è pericoloso. Kenan infatti partecipa alle manifestazioni ad Ankara, ma prende le sue precauzioni: “non posso esprimere il mio pensiero liberamente su Facebook perché potrei perdere il lavoro. Molti lavoratori hanno anche dei timori nel solo andare in piazza. Ci sono già diversi controlli random per le strade e persino dentro le case sia della polizia sia di agenti in borghese, e spesso vengono fermate anche persone che non hanno preso parte alle proteste”. Infatti, tra gli oltre 1800 arrestati e 3000 feriti ci sono anche le centinaia di persone arrestate per aver fatto “disinformazione” sui social networks.

Un dato interessante è che la protesta è eterogenea e sta unendo voci differenti. Orkide è contenta per questo: “La cosa più bella è la solidarietà che si sta vedendo in piazza e che sta unendo davvero persone dal background più diverso, senza pensare alle proprie appartenenze. Turche, curdi, lesbiche, musulmani, atee, ultras di Galatasaray o Fenerbace ora sono tutti uniti”. Più la piazza resiste e raggira la delegittimazione e più il governo cerca di spaccare la società per coagulare il suo seguito e per non far aumentare il consenso della protesta. Quando Erdoğan è tornato dal viaggio istituzionale in Tunisia e Marocco è stato accolto all’aeroporto da una grande folla che in alcuni momenti cantava “Let us go, let’s crush Taksim“. È preoccupante il fatto che Erdoğan non si sia dissociato dalla folla. Inoltre, varie persone confermano che il servizio navetta da Ankara all’aeroporto è stato potenziato fino alle 4 di notte per permettere a più sostenitori possibile di Erdoğan di recarsi lì. Nei giorni scorsi invece i trasporti pubblici in direzione Piazza Taksim a Istanbul sono stati bloccati appositamente e i manifestanti hanno attraversato a piedi il Ponte sul Bosforo per andare dalla parte asiatica di Istanbul a quella europea, dove si trova Beyoğlu.

Anche le donne scendono in piazza

“All’inizio nessuno ha capito cosa stava succedendo, ma ora tutti sanno. Non so cosa succederà, bisogna aspettare i prossimi giorni. Ma di sicuro deve avvenire qualche cambiamento, se no le persone non torneranno a casa”. Selena, una studentessa turca che ha deciso di continuare gli studi all’estero, segue con apprensione gli avvenimenti. Non è sorpresa dalla presenza delle donne in piazza: “La questione di genere riguarda il controllo sui nostri corpi come donne. Il governo vuole intromettersi nella nostra vita privata.”

Una donna vestita di rosso è stata immortalata dall’Associated Press mentre veniva aggredita da un poliziotto con lo spray al peperoncino. È subito diventata l’icona del movimento, anche se la “signora in rosso”, Ceyda Sungur, docente della prestigiosa Technical University, ha affermato di essere solo uno dei tanti volti della protesta e le sembra ingiusto che la sua faccia venga presa come simbolo. Le persone che scendono in piazza sono persone “normali”, che non necessariamente si occupano di politica quotidianamente. Ceyda ne è l’esempio, incensurata, manifesta pacificamente, stufa delle contraddizioni della sua società. Ci sono altre foto ugualmente potenti che immortalano donne che resistono: una donna di fronte ad un blindato in mezzo alla strada, una donna che resiste con le braccia aperte al getto d’acqua dell’idrante della polizia, donne coi tacchi, donne col velo, donne che si baciano, donne tirate per i capelli e a terra prive di sensi. Le donne sono protagoniste. Non mancano nemmeno su Twitter dove è subito nato l’hashtag dedicato alle loro rivendicazioni:#direnbayan, che significa “la resistenza delle donne”. La resistenza delle donne è forse tra le resistenze più delicate in Turchia.

Nonostante il tasso di istruzione delle donne sia aumentato nel tempo, e con esso anche la percentuale di occupazione femminile, lo status sociale delle donne non è ancora pari a quello maschile. Quasi la metà dei docenti universitari sono donne, sono donne anche quelle che guidano alcune importanti aziende turche: Güler Sabancı è a capo del potente conglomerato Sabancı Holdings; la più grande compagnia petrolifera turca, la OMV Petrol Ofisi, è gestita Gülsüm Azeri; Pınar Abay è amministratore delegato della ING Bank turca; Güldem Berkman è all’interno del direttivo che gestisce l’industria farmaceutica Novartis. Nonostante ciò, sono pochissime le donne che hanno accesso alle sfere alte della politica (una sola donna fa parte dei ministri del governo) e l’occupazione femminile è al 26%. Ma ci sono problemi più urgenti. Il femminicidio, infatti, non è solo un problema italiano. In Turchia dal 2009 al 2012 sono morte 666 donne, uccise da mariti o familiari. Il 39% delle donne turche ha subito violenze fisiche, che sono in aumento esponenziale negli ultimi anni. Le donne single e divorziate non vengono praticamente mai difese dalle autorità. Ma anche in caso di violenza domestica la polizia è riluttante ad agire perché preferisce “preservare l’unità familiare”.

Per tutta risposta il partito di Erdoğan ha fatto pressioni per limitare il diritto all’aborto e lo stesso Primo Ministro ha consigliato alle famiglie di avere almeno tre figli. Il tutto in un contesto in cui non c’è una politica di accudimento dei bambini sensibile alle donne che non vogliono uscire dal mercato del lavoro per stare a casa. Senza assistenza alla maternità e sostegno alle famiglie, si crea un contesto ideale per mantenere l’angelo del focolare tranquillo a casa. Anche Orkide è sensibile a questi temi e ne parla mentre segue con turbamento quello che accade a Istanbul: “Questa politica è un passo indietro rispetto ai decenni passati. Mia nonna mi raccontava che da giovane poteva andare in giro tranquillamente in minigonna. Lei è musulmana, ma non aveva problemi a farlo perché non c’erano limiti o restrizioni provenienti dalla religione. Erdoğan strumentalizza la religione come mezzo per rafforzare il potere del suo partito”.
Lottare per i diritti di genere significa lottare per una società più equa. Le proteste di Taksim hanno deciso di parlarne uscendo dai canali tradizionali del dibattito politico, ma questa non è stata una scelta totalmente voluta, ma anche obbligata dalla sordità e dalla violenza delle istituzioni dello Stato.

La solidarietà internazionale

Accanto ai ragazzi di Gezi Park e piazza Taksim si è schierato anche Noam Chomsky, con un video pubblicato su YouTube, in cui ribadisce l’importanza della piazza come luogo di dialogo tra il potere e il popolo.
Un fil rouge che collega tutte le sollevazioni e ‘Occupy’ di questo periodo tra loro, come reazioni all’imposizione di modelli sociali ed economici che hanno beneficiato solo una piccolissima parte della popolazione e che hanno portato a una situzione di forte disparità sociale, sfociata troppo spesso in repressione e violenza.
La Turchia, nelle parole di Chomsky, diventa quindi la cartina di tornasole per tutta la regione, ponte tra le occupazioni di piazza occidentali e le primavere arabe, e punto di svolta per il futuro prossimo di tutte le società oggi in crisi: una cittadinanza che si alza per gridare il suo no alla repressione, alla chiusura al dialogo, alla perdita (troppo spesso diventata una vera e propria svendita) dei valori e dalla cultura, e che guarda al cambio sociale e a un futuro partecipato.


Categorie:G10.02- Storia della Turchia e dei popoli turchi - History of Turkey and the Turkish peoples

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