Noemi Franco- “Dio lo vuole”. I crociati verso Gerusalemme

Raccontare la storia

Laboratorio di Didattica della IIIH, III i, IV As, VAs, Vi H del Liceo Scientifico Galilei di Potenza- Anno 2012-2013

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Noemi Franco- “Dio lo vuole”.

I crociati verso Gerusalemme

Papa Urbano II al Concilio di Clermont, miniatura dal Livre des Passages d'Outre-mer, 1490 circa (Bibliothèque National)

Papa Urbano II al Concilio di Clermont, miniatura dal Livre des Passages d’Outre-mer, 1490 circa (Bibliothèque National)

“Nazione prediletta di Dio – è Urbano II che sta pronunciando queste parole  in  Concilio  -, la Chiesa cristiana ha riposto ogni sua speranza nel vostro coraggio; ho valicato le Alpi e sono venuto a portare la parola di Dio in queste contrade, perché conosco la vostra pietà, il vostro valore. Voi non avete dimenticato che la terra che abitate è stata invasa dai Saraceni e che la Francia senza le gesta di Carlo martello di Carlo Magno avrebbe ricevuto le leggi di Maometto. Lamentate incessantemente a voi stessi pericoli e la gloria dei vostri padri, i quali, guidati da eroi il cui nome non può perire, hanno liberato la vostra patria, hanno salvato l’Occidente da una vergognosa schiavitù. Trionfi più nobili aspettano sotto la scorta del Dio degli eserciti: voi liberate l’Europa e l’Asia; farete salva la città di Gesù Cristo, quella di Gerusalemme, eletta dal Signore, dalla quale ci fu trasmessa una legge. […] Quanti cristiani lasciano ogni anno l’Occidente, non ritrovano in Asia che schiavitù o morte. Furono consegnati al carnefice vescovi; le vergini del Signore vennero oltraggiate; i tanti luoghi spogliati dei loro ornamenti; le offerte della pietà convertite in preda dei nemici di Dio. […] Piangiamo fratelli miei, piangiamo le nostre colpe che hanno armata la collera del cielo. Ma guai a noi se per una sterile pietà abbandoniamo l’eredità del Signore in mano agli empi! Guerrieri cristiani, che di continuo cercate vani pretesti di guerra, rallegratevi, che ne trovate oggi di ragionevoli. Andate a combattere contro i barbari, andate a combattere per la liberazione dei luoghi santi! Voi che vendete per una vil mercede il vostro braccio all’altrui furore, armati della spada dei Maccabei, correte a meritare una ricompensa eterna. Se trionferete sui nostri nemici, i regni d’oriente saranno patrimonio vostro; se soccomberete, avrete la gloria di morire nei luoghi medesimi in cui morì Gesù Cristo, e Dio non dimenticherà d’avervi rinvenuti nella santa milizia. Ecco il momento di dimostrare se siete animali di vero coraggio; ecco il momento di espiare tante violenze commesse in seno alla pace, tante vittorie comprate a costo della giustizia e dell’umanità. Soldati dell’inferno, fatevi i soldati del Dio vivente.”[1]

27 Novembre 1095, con queste parole il papa Urbano II, parlando al concilio di Clermont Ferrand, segnò l’inizio di una delle fasi più violente del medioevo: le Crociate. Il suo discorso riscosse un incredibile successo fra gente, anche più coinvolgente della reazione che lo stesso Urbino si era prospettato. La folla rispose alla sua proposta con la frase che diventerà il motto della crociata di Pietro l’Eremita: “Dio lo vuole”. Il primo che fece voto di partire per liberare la Terra Santa fu il vescovo di Le Puy, Ademaro di Moteil, che venne nominato legato del papa nella crociata e che stabilì come data di partenza ufficiale il 15 agosto 1096.

Urbano secondo

La crociata, però, si mise in moto prima della data stabilita sotto la guida di Pietro l’Eremita. Questa spedizione fu chiamata “Crociata dei poveri” giacché l’esercito era costituito in larga maggioranza da cittadini comuni, sprovvisti delle armi e della preparazione necessaria per una guerra. Urbano II, nel suo discorso, aveva, infatti, esortato ogni cristiano a non “lasciarsi trattenere né propri tetti e da basse passioni” in quanto “chiunque abbandonerà la sua casa o suo padre, sua madre, o la moglie, o sui figli, o le sue facoltà per il mio nome, sarà ricompensato e possederà la vita eterna”. I cittadini, però, presero la crociata più come un pellegrinaggio, che come una guerra, tant’è che molte cronache dell’epoca li descrivono come uomini che avanzavano trascinandosi dietro famiglia e bagagli. Ovviamente la maggior parte di loro non era in grado di combattere.

Con Pietro l’Eremita, si mossero anche il prete Folcmaro, Gualtieri Senza Averi e il conte Emicho di Leiningem. Quest’ultimo in particolare fu il responsabile di numerosi massacri contro gli ebrei incontrati lungo il cammino, considerati responsabili dell’uccisione di Cristo. A Worms la strage assunse proporzioni gigantesche, dove fu ucciso un gran numero di ebrei e molti di questi si tolsero la vita per sfuggire alla conversione forzata.

Pietro l'Eremita mostra ai crociati la via per Gerusalemme.Illustrazione tratta dal manoscritto pergamenaceo Roman du Chevalier du Cygne (1270 ca).

Pietro l’Eremita mostra ai crociati la via per Gerusalemme.
Illustrazione tratta dal manoscritto pergamenaceo Roman du Chevalier du Cygne (1270 ca).

L’itinerario prescelto da questa crociata procedeva lungo il Reno e poi lungo il Danubio, ma essendo completamente improvvisata, presentò il problema dell’insufficienza di provviste. I partecipanti si diedero quindi a frequenti razzie, con conseguenti ribellioni da parte della popolazione locale. Le truppe giunsero a Costantinopoli circa quindici giorni prima della partenza ufficiale dell’esercito e vennero quasi tutte massacrate dai turchi. Pietro l’Eremita scampò al massacro e decise di attendere l’arrivo dell’esercito vero e proprio.

Itinerario Crociata

[2]La data prescelta dal vescovo di Puy teneva conto del periodo della mietitura, che quindi assicurò alle truppe un miglior approvvigionamento. I partecipanti si occuparono di provvedere in maniera adeguata al finanziamento della spedizione: molti dei signori che partirono impegnarono le proprie terre o le vendettero per ottenere somme di denaro liquido. Molte furono anche le donazioni fatte alla chiesa in cambio di preghiere, ma anche di cavalcature. Molti furono i chierici che si unirono alla spedizione e vari testimoni dell’epoca, come Anna Comnena, rimasero scandalizzati nel vedere gente di chiesa armata, cosa allora vietata. La presenza di prelati era, però, indispensabile per lo svolgimento della vita religiosa anche durante il viaggio, attraverso la celebrazione di messe, confessioni e tutti i riti sacri che erano necessari per un viaggio sia di conquista sia spirituale.

La prima crociata si mosse in tre ondate successive attraverso itinerari determinati dal sistema viario utilizzato dai pellegrini. Quelli che si mossero dalla Lotaringia, dalla Fiandra e dalla Piccardia seguirono il corso del Reno per arrivare alla valle del Neckar, proseguirono lungo il Danubio, entrarono in terra bizantina, tra Belgrado e Nissa, attraversando l’Ungheria e proseguirono in Bulgaria.

Quelli che provenivano dalla Francia centrale si recarono, invece, prima a Roma e poi a Durazzo, da dove partiva la via Egnatia, costruita dai Romani, che portava a Costantinopoli. Nell’ultima parte del viaggio vennero anche affiancati dai Normanni. I Provenzali arrivarono alla via Egnatia passando dal Nord Italia e proseguirono per la Croazia.[3]

Numerosi sono i cronisti che hanno riportato passo per passo il lungo viaggio che li ha condotti fino a Gerusalemme, in particolare prenderemo in considerazione l’itinerario seguito da Foucher de Chartres, descritto ne “Historia Hierosolymitana”.

Foucher si mosse con la seconda ondata della prima crociata a seguito di Roberto, conte della Normandia e di Stefano, conte di Blois. Questi avevano deciso di partire i primi di Marzo 1097, aspettando la primavera e il tempo favorevole per imbarcarsi. Si ritrovarono a Brindisi con Boemondo di Taranto, da dove salparono il 9 Aprile, giorno di Pasqua. Subito li colse una disgrazia: una delle navi affondò a pochi metri dalla costa senza una causa ben precisa e nella catastrofe morirono circa quattrocento persone, uomini e donne, senza contare il danno provocato dalla perdita di muli, cavalli e denaro. Molti considerarono l’avvenimento come un presagio di cattiva sorte e decisero di abbandonare l’impresa per tornare al sicuro nelle loro case, ma altri lo considerarono come un segno della misericordia divina, che aveva concesso ai defunti una morte in suo nome, visto che portavano le insegne dei crociati.

Le flotte salparono, lodando Dio al suono delle trombe e partirono in mare aperto. Dopo quattro giorni di navigazione, in cui le navi avevano viaggiato con un vento favorevole, fu avvistata la città di Durazzo. L’esercito proseguì quindi a piedi, attraversando tutta la Bulgaria, in un territorio praticamente desertico e pieno di montagne scoscese. I guerrieri arrivarono ad un fiume chiamato dalla popolazione locale “fiume del demone” per la sua impetuosità. Come perseguitati da una sorte beffarda, coloro che tentarono di passarlo a piedi vennero travolti dalla corrente e morirono affogati. Gli altri decisero quindi di accamparsi lungo le rive del fiume per passare la notte, circondati da montagne altissime e completamente disabitate.

All’alba il viaggio riprese in direzione delle montagne Bagular, per poi proseguire verso il fiume Vardar, che secondo Foucher non era mai stato attraversato senza barche. Come se il destino ne avesse abbastanza di affogamenti, i crociati riuscirono ad attraversarlo indenni. Dopo una notte di riposo, finalmente giunsero in vista della ricchissima città di Salonicco. Altri quattro giorni di riposo e poi di nuovo in cammino verso la Macedonia, la valle di Filippi e le città greche di Crisopoli e Cristopoli, fino ad arrivare a Costantinopoli. Foucher racconta che l’imperatore Alessio I Comneno, vedendo una così gran massa di guerrieri e pellegrini che si affollavano verso la città, preferì non farli entrare, per la paura che organizzassero qualche attacco improvviso. I crociati si accamparono quindi per quattordici giorni fuori delle mura di Costantinopoli e fu permesso solo ad alcuni dei capi più importanti di entrare in città. In ogni caso ebbero il permesso di acquistare le provviste necessarie per il resto del viaggio dai mercanti locali. Tutti rimasero stupiti dalla ricchezza della città: monasteri costruiti con arte ammirabile, oro, argento, spezie orientali e sante reliquie. I capi della spedizione conclusero con l’imperatore un accordo di pace, firmato da tutti, tranne che  da Raimondo, che si oppose. Il patto fu comunque saldato e i crociati riuscirono ad ottenere tutto l’aiuto economico e la sicurezza che l’imperatore poteva offrire loro, sia in quella occasione che per i pellegrini successivi. Carichi dei tesori regalati dall’imperatore, denaro, cavalli, stoffe, i crociati si imbarcarono per attraversare il “braccio di San Giorgio” in direzione di Nicea.

I quattro principali leaders della Crociata- Miniatura di Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville (1835–1885)

I quattro principali leaders della Crociata- Miniatura di Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville (1835–1885)

Goffredo di Buglione fu il primo a raggiungere la città, insieme a Boemondo, Raimondo di Tolosa, Roberto di Fiandra e Pietro l’Eremita, che si era unito all’esercito crociato a Costantinopoli. Nicea, passata sotto il dominio dei turchi già nel 1077, era stata messa sotto assedio dai cristiani, che però erano male equipaggiati e, come riferisce Foucher, “piuttosto maldestri nell’usare le balestre”. Lo spettacolo che i cristiani si trovarono davanti fu infatti un interno campo seminato di cadaveri. Non appena gli assedianti seppero dell’arrivo dei rinforzi, li pervase una grande speranza. Il 14 maggio i crociati piantarono le tende intorno alla città, circondandola. Foucher si sistemò nella parte meridionale di Nicea, insieme alle truppe di Raimondo. Già due giorni dopo il loro arrivo, i crociati erano riuscire a sconfiggere i turchi in battaglia, uccidendone circa 200. I primi giorni di giugno, tutto l’esercito crociato era pronto a riconquistare la città. Foucher rimase impressionato dal numero di guerrieri lì riuniti, circa 600000 combattenti, senza contare donne, bambini e monaci, e sarebbero stati ancora di più se molti non fossero morti durante il viaggio per malattie o per la fatica. Supportati dall’imperatore, che forniva agli assedianti provviste dal mare, i crociati continuarono l’assedio per quasi cinque settimane, fino alla fine di giugno, riportando numerose vittorie e alla fine conquistando la città.

Il 29 giugno il cammino riprese in direzione delle pianure di Dorilea, che prendono il nome dalla vicina città di Dorylaeum. La gioia della vittoria non durò a lungo, perché ben presto i crociati si accorsero di essere spiati dai turchi, che volevano tender loro un agguato proprio nelle pianure che si accingevano ad attraversare. I crociati si lanciarono contro i turchi, che “formavano una massa di 360.000 guerrieri tutti a cavallo e armati d’arco com’era loro costume” (stima secondo molti storici esagerata, in quanto le armate turche non avrebbero dovuto superare i 150000 guerrieri). Le armate di Goffredo e di Raimondo si erano separate dal resto dell’esercito, “inconsapevolmente ingannati da un percorso che si articolava in due vie”. Questo fu un danno irreparabile per l’esercito crociato, che si trovo in difficoltà contro i turchi. La battaglia durò tutto il giorno, il 1° luglio 1097, ma alla fine i crociati prevalsero grazie all’arrivo dei comandanti “ritardatari” e misero in fuga l’esercito nemico.

Il viaggio proseguì in direzione di Antiochia, in Siria. Il percorso era pieno di imboscate turche, ma grazie ad un avvertimento ricevuto, i crociati attesero due giorni in più prima di proseguire il cammino. Il terzo giorno i turchi, sorpresi dal ritardo, uscirono dalle imboscate e si diressero verso il castello in cui si erano accampati i cristiani, ricevendo un’altra sconfitta.

Ademaro porta la Lancia Sacra in battaglia,miniatura medievale.

Ademaro porta la Lancia Sacra in battaglia,
miniatura medievale.

L’esercito giunse ad Antiochia solo il 21 ottobre, dopo aver attraversato il fiume Oronte. L’assedio si prolungò molto più del previsto, durando fino a giugno del 1098. Ma non fu tanto la durata il vero problema dell’assedio, quanto della carestia che colpì la zona e che portò i crociati a patire la fame. Pressati dal bisogno di nutrirsi, mangiarono gli steli di fave che cominciavano a riempire i campi verso primavera, qualsiasi tipo di erba e addirittura cavalli, asini, cammelli, cani e topi. Alcuni arrivavano a divorare addirittura la pelle degli animali che trovavano e qualsiasi rifiuto riuscissero scovare. Stefano, conte di Bois, decise di disertare. Rimproverato e cacciato di casa dalla moglie Adele d’Inghilterra, Stefano sarà costretto a ritornare a Gerusalemme nel 1101, dove morirà decapitato.

Era diventato indispensabile conquistare la città per non morire di fame e questo fu possibile solo grazie a Firouz, una guardia armena che svelò un passaggio segreto nelle mura di Antiochia. Secondo Foucher, era stata una visione di Dio che aveva spinto il turco ad aiutare i cristiani. Qualunque sia stata la causa, Firouz riuscì a introdurre nella città venticinque uomini, che aprirono le porte della città e permisero all’esercito di spezzare, finalmente, l’assedio.

Dopo la conquista di Antiochia, secondo il racconto di Foucher, arrivò un uomo che disse di aver trovato in una fossa nella chiesa di S. Pietro, la lancia sacra di Longino, con cui era stato ferito Gesù sulla croce. Aveva fatto la scoperta guidato dalle visioni mandategli dall’apostolo Andrea, che gli aveva indicato il punto preciso in cui cercare. La sua scoperta portò un grande entusiasmo nella folla dei crociati, che si slanciarono in inni e odi a Dio.

Antiochia sembrava essere ormai passata completamente sotto le mani dei cristiani, ma il 7 giugno la città venne nuovamente posta sotto assedio, questa volta da parte dei turchi comandati da Keborgha. I cristiani si ritrovarono nuovamente a combattere contro la fame, ma stabilirono alcuni giorni di digiuno e preghiera per rendere favorevole Dio alla loro causa. Si racconta che un prete di nome Stefano ebbe una visione in cui Gesù lo aveva sollecitato a far cantare ai crociati il responsorio del mattutino “Congregati Sunt”, in pegno alla vittoria. Dopo un consiglio tra i capi, fu mandato Pietro l’Eremita per riportare ai turchi un messaggio dei crociati. Questi ultimi volevano organizzare un duello leale tra alcuni uomini scelti tra i due eserciti, in modo da diminuire le perdite da ambo le parti. Chi avrebbe vinto il duello, avrebbe conquistato la città. Ovviamente i turchi rifiutarono, visto che erano in numero nettamente superiore e avevano molti cavalieri rispetto all’esiguo numero di fanti cristiani. Grazie alla speranza che i cristiani nutrivano nella lancia sacra, la battaglia fu comunque vinta dai crociati, che riuscirono a disperdere l’esercito turco il 28 giugno.

L’esercito crociato si diresse verso il castello di Archas, costruito alle pendici del monte Libano e particolarmente difficile da conquistare. Tentando di prendere i nemici per fame, i crociati si ritrovarono a condividere lo stesso destino. È proprio in questo periodo che alcuni crociati, tra cui il vescovo di Puy, cominciarono a nutrire alcuni dubbi circa l’autenticità della lancia. Si decise, allora, di affidare la questione al giudizio divino: fu acceso un gigantesco falò, che l’uomo doveva attraversare. Non appena passò attraverso le fiamme, il pover’uomo prese fuoco e dopo dodici giorni di agonia, morì per le ustioni riportate. Grazie a questa prova “schiacciante”, fu provata la falsità della lancia, che non aveva protetto il suo scopritore delle fiamme.

Secondo un’altra versione, invece, il portatore avrebbe attraversato indenne il fuoco, ma la folla, incredula, lo avrebbe schiacciato nella foga del miracolo. L’uomo sarebbe morto pochi giorni dopo, rimproverando, in punto di morte, i cristiani scettici che lo avevano costretto a provare la sua buona fede.

Probabilmente le due versioni sono state generate dalle due “fazioni” in cui l’esercito si era diviso nel decidere l’autenticità del manufatto.

L’assedio durò circa cinque settimane, ma poi i crociati lasciarono il castello per dirigersi verso la città di Tripoli. L’unico a lamentarsi della decisione fu Raimondo di Tolosa.

Il viaggio proseguì passando per rocce e precipizi poi discesero nella pianura di Beirut e attraversarono il territorio di Sidone e Tiro, città famosa per i suoi lussureggianti giardini. Alcuni arabi della città diedero addirittura del cibo ai crociati, pur di evitare la distruzione di una tale bellezza. Si fermarono quindi per tre giorni lungo il fiume Eleutere, dove furono lì assaliti da serpenti chiamati tarenta, il cui morso uccideva tra violenti dolori in e una sete inestinguibile. Li scacciarono colpendoli con i sassi e percuotendo gli scudi per farli spaventare.

Proseguirono poi verso Tolemaide, chiamata da alcuni Accon o Accaron, per un errore di trascrizione. L’emiro che comandava in questa città, si arrese immediatamente ai crociati e diede loro alcune provviste. I cristiani, che non avevano mai avuto intenzione di assalire Tolemaide, accolsero con gioia la sua sottomissione, ma ben presto scoprirono che l’emiro si era comportato in questo modo solo per allontanarli dal proprio territorio. Infatti, durante il viaggio, cadde nel campo una colomba, sfuggita dagli artigli di un uccello da preda che l’aveva uccisa. Fu trovata sotto l’ala dell’uccello una lettera scritta dall’emiro di Tolemaide a quello di Cesarea in cui venivano avvertiti i capi delle città musulmane del passaggio dei crociati e in cui gli arabi venivano esortati a prendere provvedimenti per eliminare i nemici. I crociati proseguirono verso Dor, vicino alla città palestinese di Cesarea e, lasciandosi alla destra le coste del mare, proseguirono verso Ramla, cittadina da cui gli abitanti erano fuggiti il giorno prima per l’arrivo dei saraceni. L’esercito trovò lì una grande riserva di grano, che caricò sui muli da soma e rese più agevole il viaggio. Dopo quattro giorni di riposo, il viaggio proseguì verso Gerusalemme, passando per Emmaus, e avanzarono attraverso i monti della Giudea in una valle stretta tra due montagne, particolarmente indifesa contro possibili attacchi nemici. Dopo aver camminato per tutta la notte, i crociati giunsero di sera presso il villaggio di Anathot, dove seppero che le chiese di Gerusalemme erano state saccheggiate e incendiate. Baldovino e Tancredi venerano inviati verso Betlemme per soccorrere alcuni pellegrini minacciati dai turchi. La reazione dei cristiani fu all’inizio di spavento, ma poi vedendo le insegne dei crociati, lanciarono delle urla di gioia, perché era già da tempo che aspettavano il loro soccorso. I due capi inviati nella missione di soccorso visitarono la stalla in cui nacque Gesù, poi ripresero il cammino verso Gerusalemme.

Proprio quella notte i volti di tutti i crociati si alzarono verso il cielo per scrutare un fenomeno, che “colpì vivamente l’immaginazione pellegrini: un’eclissi di luna all’improvviso diffuse profondissime tenebre. La luna si fece vedere coperta di un velo sanguigno. Molti crociati furono presi dal terrore a quella vista; ma parecchi che conoscevano il giro ed il movimento degli astri, dice Alberto d’Aix, dissero loro che la comparsa di un tale fenomeno annunziava il trionfo de’ cristiani e la distruzione degli infedeli.”[4]

I cristiani si diressero finalmente sulla città santa. Dopo più di un anno di cammino, finalmente Gerusalemme si stagliava all’orizzonte; urla di gioia attraversarono le fila di soldati. “Alcuni si gettarono in ginocchio alla vista dei luoghi santi; altri baciarono rispettosamente la terra onorata dalla presenza del Salvatore. Nel loro trasporto passano successivamente dalla gioia la tristezza, e dalla tristezza la gioia. Si congratulano di essere al termine dei loro travagli; piansero i loro peccati, la morte di Gesù Cristo, il profanato suo sepolcro; ripeterono tutti il giuramento tante volte fatto di liberare la città santa dal sacrilego giogo dei musulmani.”[5]

La presa di Gerusalemme (1099)

La presa di Gerusalemme (1099)

Alla vista delle insegne portate dall’avanguardia, i nemici si precipitarono fuori dalla città, ma per il momento i cristiani evitarono lo scontro, ritirandosi. Predisposero invece l’assedio circondando la città: era il 7 giugno 1099.

L’assedio, che si concluse il 15 luglio, sarebbe durato circa un mese, durante il quale i guerrieri si ritrovarono nuovamente a patire la fame, al pari degli assediati, che almeno potevano contare su cisterne d’acqua interne alla città. Dei 7000 cavalieri partiti, ne erano arrivati solo 1500.


[1] “Storia delle Crociate”, Joseph François Michaud, 1831

[2] Immagine tratta da “La grande storia delle crociate”, Jean Richard

[3] “La grande storia delle crociate, vol. I”, Jean Richard

[4] “Storia delle Crociate”, Joseph François Michaud, 1831

[5] Vedi nota 4

Noemi Franco

Liceo Scientifico Galilei-Potenza IIIi

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